Ai cuori ardenti

A quattro anni dall’operazione repressiva Renata, avvenuta il 19 febbraio 2019, pubblichiamo – non per un’asettica “riesumazione” della storia recente, bensì perché si tratta di testi che affrontano le profonde ragioni sociali e individuali del pensiero e dell’azione degli anarchici – la dichiarazione dei sette compagni imputati durante il processo di primo grado (“Ai cuori ardenti”) e una seconda dichiarazione distribuita durante il processo d’appello. Inoltre, riteniamo importante e necessaria la reperibilità e la divulgazione delle dichiarazioni dei compagni che, durante i processi, prendono la parola continuando a sostenere le idee e le pratiche d’attacco contro lo Stato e il capitale.


Ai cuori ardenti

Dichiarazione degli anarchici imputati al processo per l’operazione Renata

L’anarchico non guarda al successo, alla vittoria, alla competizione. Lotta, perché è giusto. E in qualsiasi lotta la perdita fa parte della vita. Non cambia idea perché perde e tanto meno rinuncia alla lotta successiva. Il Sistema si autoalimenta per il popolo che non lotta, non perché è invincibile. Il lavoro dell’anarchico è instillare nel popolo la rivolta, non a segmenti ma continua. Come un’onda che si ritira e poi torna. Mi chiedete se vinceremo? Mi fate la domanda sbagliata. Chiedetemi se lotteremo e vi risponderò di sì.
Luigi Galleani

Oggi abbiamo deciso di dire la nostra sull’operazione “Renata”. In altri scritti è stata analizzata l’inchiesta, sia negli aspetti repressivi generali dello Stato, sia riguardo gli strumenti tecnologici, inquisitoriali e giuridici usati per colpire chi ancora osi battersi per qualcosa di diverso e soffi ancora sulle ali della libertà.

Abbiamo deciso di non rivolgerci alla Corte che ci giudicherà né alla solerzia dei nostri repressori. Non è l’aula di un tribunale il luogo in cui oggi scegliamo di parlare.

Vogliamo parlare in quei luoghi in cui si lotta, dove c’è ancora spirito critico, dovunque ci siano donne e uomini coscienti che tante cose vanno cambiate ora, che questo stato di cose va rivoluzionato.

Quindi parleremo dei fatti di cui siamo imputati o che sono inseriti nell’inchiesta.

Queste azioni – notturne o diurne, individuali o collettive – si inseriscono in un conflitto che va ben al di là dei fatti specifici o del territorio in cui sono collocate. Esse sono frutto di uno scontro più ampio, quello tra gli sfruttati, gli sfruttatori e chi li difende.

Di queste azioni condividiamo lo spirito, l’etica, il metodo, gli obiettivi, indipendentemente da chi le abbia compiute. Esse parlano da sole, sono comprensibile ai più, indicano una strada – quella della liberazione. Puntano il dito contro chi vive di sfruttamento e guerra, di odio e violenza, auspicano qualcosa di più, qualcosa che metta fine alle peggiori atrocità e barbarie, ma soprattutto mirano a distruggere il muro della rassegnazione, in tempi così poveri di solidarietà umana, di ribellione, di pensiero critico.

Chi in questi anni ha detto e tutt’ora dice che simili azioni non servono a nulla, che il gioco non vale la candela, che nulla cambierà, che l’essere umano ha perso in modo definitivo il senno riducendo la vita a una costante guerra fratricida, ha smesso di sognare, ha smesso di interrogarsi sui responsabili delle ingiustizie e sulle cause che hanno portato la società ad un livello morale, ambientale e materiale a dir poco inquietante.

Tra le svariate cose raccontate nei faldoni, emerge che in questi anni siamo scesi molte volte in strada con caschi e bastoni contro partiti e movimenti come Lega, Casapound e Sentinelle in piedi. Abbiamo criticato in decine di volantini, manifesti e iniziative di vario tipo le loro responsabilità storiche e le loro politiche reazionarie: gruppi politici e religiosi che promuovono l’odio fra gli sfruttati, che difendono la classe padronale, che alimentano una società basata sul privilegio, sul razzismo, sul patriarcato e molto altro.

In questi tempi aridi di lotte e di scontro sociale, ci si scandalizza per le pratiche di autodifesa in strada, dimenticando, assieme al passato in cui ciò era patrimonio comune, il buon senso minimo di distinguere la violenza reazionaria da quella proletaria. Non solo ci si dimentica di quello che polizia, carabinieri, Chiesa e fascisti hanno fatto in questo Paese, ma delle violenze dell’altro ieri: di Genova 2001, di Firenze, di Macerata e tante altre ancora. Visto che il loro ruolo e il loro compito sono sempre gli stessi, abbiamo sempre ritenuto importante che la loro azione non trovasse né il silenzio né la tranquillità nel territorio in cui viviamo.

E a proposito della rivolta di Genova 2001, e della vendetta di Stato che continua ad abbattersi sui compagni per quelle giornate, è sconcertante leggere con quale chiarezza un’intelligenza collettiva riuscì all’epoca a prefigurare una serie di scenari: devastazione globalizzata, neoliberismo sfrenato, riscaldamento climatico, politiche anti-immigrati che producono nuovi schiavi… un ordine sociale giunto ormai all’implosione.

Un altro silenzio che non accettiamo è quello che circonda le morti nelle carceri e nelle caserme. Da quando è stato aperto il carcere di Spini a Trento, molti detenuti si sono suicidati, altri ci hanno provato, altri ancora sono morti per le negligenze mediche o per lo zelo repressivo dei magistrati di sorveglianza. Abbiamo conosciuto il dolore e la rabbia dei famigliari, degli amici, di chi ha perso il proprio figlio nelle mani dello Stato, ma abbiamo purtroppo conosciuto anche l’indifferenza e il silenzio dei più, malgrado simili tragedie siano più vicine di quanto si creda.

Uomini e donne che ricoprono coscientemente il ruolo di aguzzini decidono di contribuire a difendere una società fondata sulla paura, sul ricatto, sulla vendetta, sulla violenza e sul pregiudizio. E noi saremo sempre pronti a denunciarne le responsabilità, a ostacolarne il lavoro, a spingere altri a prendere posizione contro questi assassini in divisa, con il doppiopetto da burocrati o in camice bianco.

Chi ha cercato di incendiare le auto della polizia locale ha dato un segnale in tal senso. I poliziotti locali non sono solo quelli che indicano le strade alla bisogna, ma anche quelli che partecipano agli sfratti delle persone che non riescono a pagare l’obolo al padrone di casa, quelli che sparano alle spalle di un ragazzino, come è successo a Trento qualche anno fa, quelli che picchiano delle persone di colore, come è successo a Firenze, che applicano i Daspo, che partecipano alle retate contro chi è senza documenti e compiono tante altre nefandezze.

Le espulsioni, i campi di concentramento – si chiamino CPR o Hotspot –, i morti in mezzo al mare, in montagna o lungo i binari di una ferrovia sono lo scenario quotidiano di questo mondo a cui vorrebbero farci abituare. Per questo sono stati bloccati i treni ad Alta Velocità in solidarietà con chi è congelato su un sentiero di montagna o chi è stato risucchiato da un treno merci a qualche chilometro da casa nostra. Sempre per questo, il 7 maggio 2016, al Brennero ci siamo scontrati con la polizia e abbiamo bloccato ferrovia e autostrada. «Se non passano gli esseri umani, non passano nemmeno le merci»: questo era lo spirito di quella difficile giornata.

Di fronte al ghigno feroce del razzismo di Stato, dovremmo scandalizzarci perché qualcuno, nell’ottobre del 2018, ha attaccato la sede della Lega di Ala?

Nel novembre 2016, a Trento e a Rovereto, furono incendiate diverse auto di Poste Italiane. Nelle scritte lasciate sui luoghi delle azioni e riportate dai giornali, si faceva riferimento alle responsabilità di P. I. che, tramite la propria controllata Mistral Air, si arricchiva deportando nei Paesi di origine donne e uomini privi dei documenti in regola per vivere in Italia. Senza contare che P. I. investe una parte dei propri introiti nei fruttuosi affari dell’industria degli armamenti. Ci chiediamo quale differenza ci sia tra i fatti accaduti negli anni Trenta e Quaranta e quelli di oggi? Perché si ricordano le vittime di allora con gli ipocriti mea culpa e nulla sembra scuotere oggi i cuori dei più?

Non passa giorno senza che su giornali, siti, televisioni si legga o si veda questa o quella guerra. Guerre per procura, guerre per interessi geopolitici, guerre per il territorio, di territorio, per il potere. Guerre che provocano i grandi spostamenti di uomini e donne. A promuovere queste guerre non sono solo gruppi industriali come la FIAT (con l’Iveco) o gli AD di Leonardo Finmeccanica e Fincantieri. Al loro servizio c’è una schiera di tecnici e scienziati, un esercito in camice bianco, con i guanti e le mani sterilizzate, che lavora nei laboratori delle nostre città, nelle università a due passi da noi. In nome della scienza e del progresso, si giustifica qualsiasi “scoperta”, senza che da quei luoghi si sollevi un qualche interrogativo di fondo: «A cosa porta tutto ciò?», «che scenari nuovi apre?», «a chi serve davvero?». Ecco allora che nel democratico e pacifico Trentino, l’Università collabora con l’esercito italiano, aiuta le istituzioni israeliane a meglio pianificare l’oppressione del popolo palestinese, fa entrare nei propri Consigli e nelle proprie aule le principali aziende di armi. Di fronte a questa palese connivenza, ci si sorprende che ignoti abbiano incendiato, nell’aprile del 2017, il laboratorio Cryptolab all’interno della Facoltà di Matematica e Fisica di Povo? Quando sugli stessi siti universitari si illustra la collaborazione con l’esercito?

E che dire dell’incendio di mezzi militari, la notte del 27 maggio 2018, all’interno dell’area addestrativa del poligono di Roverè della Luna? Oltre a ruspe e camion, sono stati dati alle fiamme tre carri armati Leopard. Di produzione tedesca, sono gli stessi carri che Erdogan ha utilizzato e utilizza per schiacciare la resistenza curda. Come dicevano dei manifesti antimilitaristi apparsi in Germania anni fa: «Un mezzo militare che brucia qui = qualcuno che non muore in qualche guerra». Un concetto di una semplicità… disarmante.

Sempre a proposito di antimilitarismo e di internazionalismo, nelle carte dell’inchiesta si parla di sabotaggi ai bancomat dell’Unicredit, banca che, senza contare i suoi investimenti nell’industria bellica, è la principale finanziatrice del regime fascista di Erdogan, che proprio in questi giorni sta mostrando tutta la sua ferocia in Siria e contro il dissenso interno. E poi si menzionano i sabotaggi ferroviari in occasione dell’Adunata degli Alpini. Per chi non ha eroi da onorare, ma carneficine da maledire, quei gesti di ostilità contro la sfilata del nazionalismo e del maschilismo gallonato hanno riattivato un minimo di memoria storica: le diserzioni, gli ammutinamenti, le sommosse per il pane, gli scioperi nelle fabbriche, gli spari contro gli ufficiali particolarmente odiati dalla truppa, le rivolte al grido di “guerra alla guerra!”, il posizionamento intransigente “contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale”, oggi sempre più attuale.

Noi sosteniamo i portuali di Genova, di Le Havre e Marsiglia che si sono opposti al carico-scarico di materiale bellico destinato all’esercito saudita che da anni massacra la popolazione yemenita con bombe fabbricate, fino all’altro giorno, in Italia. Ma non ci accontentiamo. Vorremmo che gli operai disertassero le fabbriche di armi, quelle navali e chimiche; che gli scienziati uscissero dai loro laboratori. Vorremmo le università in sciopero, a partire da quelle di Giurisprudenza, dove si giustificano le cosiddette “missione di pace” (Peace-keeping, lo chiamano), vorremmo che i ferrovieri bloccassero i treni come all’epoca della prima guerra del Golfo.

Tramite le guerre gli industriali si arricchiscono sfruttando la mano d’opera operaia e comprandone la coscienza per un tozzo di pane. E ancora a meno se la comprano le agenzie interinali, sfruttando vecchie e nuove leggi sul lavoro e mandando la gente a lavorare a progetti devastanti come il TAP in Puglia. Per questo non ci stupisce che qualcuno, a Rovereto, abbia danneggiato un’agenzia Randstadt, ricordando che la guerra di classe non è finita.

Un’altra azione di cui siamo accusati è l’incendio dei ripetitori sul monte Finonchio, sopra Rovereto, nel giugno 2017.

Da sempre denunciamo, e non siamo certo i soli, il danno ambientale provocato dalle decine di migliaia di queste torri sparse in tutti i territori, le cui onde causano tumori e disturbi vari agli umani e agli animali (e molto peggio sarà con il 5G).

Oltre a ciò, simili tecnologie hanno diminuito le capacità di concentrazione e di apprendimento, condizionato l’acquisto di merci, creato bisogni indotti, rimbambito i cervelli. Senza contare l’aspetto più importante: il controllo sociale. Ormai le inchieste poliziesche sono basate quasi esclusivamente su intercettazioni video e audio da montare e smontare a piacimento. La repressione e il controllo si potenziano con ogni scoperta tecnologica, la quale assicura a sua volta affari alle aziende che collaborano con gli Stati. Questa tendenza non è politica, bensì strutturale, dal momento che l’apparato accresce se stesso e, con il pretesto della sicurezza, giustifica qualsiasi cosa.

Ci viene contestato il fatto di “programmare la rivoluzione” tramite le riviste, gli appelli, gli scritti. Ebbene sì. Non ci abbattiamo di fronte alle avversità di questa epoca. Ogni sussulto di ribellione, ogni sommossa che tenda alla libertà, ogni moto rivoluzionario che riecheggia più o meno vicino a noi è motivo di energie rinnovatrici per la propaganda e per l’azione, al fine di sollecitare la società attorno a noi a un cambiamento radicale. Per questo negli anni abbiamo occupato vari edifici: non solo per avere degli spazi in cui organizzarci e creare dibattito, ma anche per provare a mettere in pratica la vita che vorremmo, con i nostri pregi e difetti. Forse siamo sognatori, romantici, illusi, ma siamo anche determinati, solidali, internazionalisti, concreti.

Se ci sarà da alzare la voce davanti alle porte di un supermercato o ai cancelli di una fabbrica o di un cantiere contro le nefandezze dei padroni e dello Stato, noi ci saremo; se ci sarà da bloccare progetti come il TAV, salendo su una trivella o danneggiandola, ci saremo; saremo là dove si alzerà la voce della rivolta.

Si contesta ad alcuni di noi, infine, di aver fabbricato dei documenti falsi. La falsificazione di documenti è uno strumento di cui tutti i movimenti di lotta, anarchici e non solo, si sono dotati per eludere la repressione statale, e a cui sono ricorsi e ricorrono gli sfruttati e i poveri per viaggiare in cerca di un posto migliore dove vivere. Soprattutto in un mondo in cui, se non hai in tasca il pezzo di carta giusto, muori in mare o in un lager libico, oppure finisci in uno dei tanti campi di concentramento sparsi per la civile e democratica Europa.

Gli inquirenti sostengono che un gruppo di affinità è difficile “da infiltrare e da demoralizzare”. Che chi mira al potere non riesca a capire chi mira alla libertà ci sembra un’ottima cosa.

Non saranno condanne e carcere a farci innalzar bandiera bianca. Continueremo a volere quel cambiamento radicale intravisto durante la Comune di Parigi del 1871, che tanto fece tremare lo Stato e i padroni. Sappiamo che questo cambiamento radicale non avverrà dal nulla, per qualche determinismo della storia. Sarà il frutto della volontà, spinta verso gli scopi più alti della convivenza umana, verso l’anarchia, «un modo di vita individuale e sociale da realizzare per il maggior bene di tutti» (Malatesta).

Concetto tanto semplice quanto lontano dalla situazione in cui ci troviamo.

Ogni azione che oggi va ad indicare i diretti responsabili dello sfruttamento umano e ambientale è utile perché fa capire che l’oppressione è più vicina di quanto crediamo.

Ma starà alla volontà di ciascuno di noi abbattere le paure a cui ci vorrebbero sottoposti e svegliarci dalle comodità materiali con cui uccidono lo spirito, i pensieri, le idee.

Noi non costringiamo nessuno a fare quello che non vuole, ma non permetteremo neanche che a nome nostro o con la nostra collaborazione si continui a distruggere e ammazzare. Non resteremo inermi e impassibili. Non ci faremo né zittire né trascinare nel fango della barbarie.

In questi anni e mesi abbiamo visto decine di compagne e compagni finire in galera, alcuni condannati a lunghe pene. Invitiamo a unire le forze e dare le risposte necessarie a questi attacchi contro il nostro movimento. Agendo si faranno inevitabilmente degli errori. Si tratta di temprare corpi e menti per una rinnovata fiducia nelle idee e nelle pratiche di libertà.

Vogliono che cadiamo nella rassegnazione e nello smarrimento. Hanno già fallito.

Visto che agli inquisitori piace tanto giocare con le parole (degli altri) non meno che con i fatti, “Renata” pare l’ennesimo inciampo lessicale, perché ogni cuore ardente è pronto a “rinascere” per ogni torto subìto.

Trento, 18 ottobre 2019

Stecco, Agnese, Rupert, Sasha, Poza, Nico e Giulio


Dichiarazione degli imputati distribuita durante il processo d’appello per l’operazione Renata

In quali condizioni, in quale senso la storia si svolgerà in seguito? Questi quesiti sono insolubili. Ciò che noi sappiamo sin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire.
Simone Weil

Sono passati due anni dall’operazione che ha portato ai nostri arresti e da quando, mesi dopo, abbiamo messo nero su bianco quel che avevamo da dire a riguardo. A tutt’oggi cinque di noi si trovano sottoposti a misure cautelari, in attesa del processo d’appello, misure che non vengono neppure conteggiate ai fini dell’esecuzione della pena. Un “obbligo di dimora” che nella realtà dei fatti appare come una sorta di “confino” trovandoci divisi e sparpagliati in varie parti della penisola. Ben più degno di nota, però, è quel che è accaduto nel frattempo. Possiamo dire senza troppi fronzoli che il mondo (ancora quello di là fuori, per alcuni e alcune di noi, ma a quanto pare non solo per noi) si sia letteralmente stravolto. L’epidemia di Covid-19 ci ha sbattuto in faccia non solo quali possono essere le conseguenze dell’organizzazione sociale capitalista (con la devastazione della natura, due secoli di guerra industriale al pianeta che abitiamo, irresponsabilità scientifiche alla ricerca di soluzioni per un sempre maggiore profitto), ma anche quale può essere la risposta degli Stati per far rientrare i potenziali dissidenti in quelle stesse logiche rassegnatorie che hanno permesso di trovarci in questo duemilaventuno.

Così è arrivata l’alzata di spalle della “società democratica” di fronte alle stragi di Stato nelle carceri, che trovandosi tra le comodità dell’al di qua del muro ha lasciato soffocare le urla di quei detenuti che per primi hanno alzato la testa. Quelle urla di disperazione hanno trovato una società capace di “accettare” la quotidianità del coprifuoco, una società capace di adattarsi essa stessa alla logica della carcerazione. Questo dobbiamo constatare: da qui, dall’abitudine ad una normalità sempre più spaventosa nasce quell’indifferenza, trasformandosi poco a poco nell’incapacità di uno spirito critico anche per tutto il resto: d’un prendersi cura l’uno dell’altro, d’una solidarietà concreta, resa “illecita” e “criminale” senza dubbio dalle operazioni repressive, ma forse ancora di più dalla rassegnazione a vedere la Verità solo negli slogan di Stato (come dimenticare le bandiere ai balconi, i “distanti ma uniti”, i “siamo tutti sulla stessa barca” ed infine la fiducia nella Scienza come unico “dio salvatore”). Come un colpo di spugna sullo scontro reale e di classe, la digitalizzazione del mondo, presentandosi come una fuga da una realtà che “è meglio non vedere”, non può che accelerare questo processo di distacco dal mondo. Sono messaggi del nostro tempo che dobbiamo cominciare a vedere chiaramente.

Ma oltre a cercare di vederci chiaro, siamo tra quelli che cercano di guardare lontano per trovare la forza di battersi qui, perché il terreno internazionalista è ciò che dà il senso a tutte le lotte per la libertà. E non ci è certo sfuggito che in moltissime parti del mondo centinaia di migliaia di oppressi si stanno battendo contro misure di contenimento che hanno tutto del militare e poco del sanitario, contro le sistemiche violenze della polizia, contro regimi sempre più autoritari.

È forse per questo che la sfilza di operazioni poliziesche che si sono abbattute contro anarchiche e anarchici in questi due anni mostrano misure e strategie sempre più repressive. Arresti dichiaratamente preventivi per evitare che si «soffi sul fuoco» del malcontento sociale, accuse di terrorismo a chi ha resistito ad un pestaggio in carcere, l’infamante accusa di strage come nuova arma repressiva per seppellire compagne e compagni sotto decine di anni di carcere (come le condanne pesantissime dell’operazione Scripta Manent e il processo in corso a Juan).

Ma questo deve essere letto nel presente che stiamo attraversando. Se, per esempio, viene definito “complottista” (quando non addirittura, vanificando il significato storico del termine, marchiato con la categoria di “negazionista”) chiunque non accetti il pacchetto pronto dello Stato su qualsiasi fronte, imponendo la via unica del silenzio-assenso, non c’è da stupirsi che un gruppo di anarchici venga accusato di “istigazione a delinquere” o processato per “associazione sovversiva” per aver, tra le altre cose, evidenziato (perché non si tratta di chissà quali teorie innovative, basta aprire la finestra) come e perché le responsabilità dell’organizzazione sociale capitalista siano le effettive cause della nascita e della diffusione di questa come di altre epidemie, delle guerre, dello sfruttamento.

Lo leggiamo anche tra le carte che ci portano all’appello dell’operazione Renata: dove una rivista anarchica diventa lo spazio per «le finalità dichiarate dall’associazione» – come una premessa certamente utile all’accusa di “terrorismo” – poiché vi si afferma l’ovvietà del fatto che un processo rivoluzionario non possa «escludere anche forme di lotta violenta». Lorsignori, con la cocciuta ostinazione a voler far rientrare l’anarchismo nelle logiche gerarchiche del processo penale, cercano di incolpare chi esprime ciò che è ovvio del fatto che… «qualcuno prima o poi finirà per crederci»: se non fosse il tragico tentativo di aumentare gli anni di galera risulterebbe perlomeno grottesco.

Come poteva essere prevedibile, la dichiarazione scritta in occasione del processo di primo grado – “Ai cuori ardenti”, che segue questa premessa – non ha tardato ad arrivare sulle scrivanie di diverse Procure. Ma noi non cerchiamo certo giustizia dove non si può trovare, e siamo consapevoli che sia anzitutto la sproporzione dei rapporti di forza in campo a concedere terreno alla spavalderia repressiva dello Stato. Solo quando le lotte riescono a prendere spazio si fanno più chiari i ruoli della società in cui viviamo, anche quelli della farsa giuridica, e si fanno meno efficaci le armi della repressione. Per questo riteniamo che questo duemilaventuno sia anche il frutto di uno spirito rivoluzionario inconsistente e reso muto, se non del tutto incapace di immaginarsi. Ma sappiamo anche che ci sono strade (im)possibili che possono cambiare le cose. Scriveva Bakunin all’alba della Comune di Parigi: «è ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile». Lo sappiamo noi come lo sanno tutti gli anarchici e le anarchiche che in ogni angolo del mondo ora si trovano dietro le sbarre. A loro mandiamo il nostro saluto, la nostra complicità, la fervente solidarietà che ci anima nell’azione. Lo facciamo oggi come lo ricorderemo domani se ci troveremo di nuovo tra le strette mura di una cella.

Sì, continueremo ad essere testardi perché sappiamo che è solo con questo spirito che si potrà guardare avanti, per continuare a battersi per la libertà, adoperandoci con i mezzi che più riterremo adatti e consapevoli di avere di fronte un nemico che, spontaneamente, non farà alcun passo indietro. Il battito che sentiamo non potrà mai essere percepito dal giudizio di un’organizzazione sociale figlia del profitto e della competizione. Guardiamo oltre per vederci chiaro. Ma per questo non sarà sufficiente rivolgere lo sguardo alle nostre mani e alle nostre menti.

Occorre rivolgerlo soprattutto ai nostri cuori.

I nostri cuori ardenti.

Trento, 22 febbraio 2021

Stecco, Agnese, Rupert, Sasha, Poza, Nico e Giulio

PDF: Ai cuori ardenti
PDF: L’amore, l’azione, la vita sono altrove. Note, riflessioni, scritti intorno all’operazione Renata e la repressione anti-anarchica

[Tratto da https://ilrovescio.info/2021/02/22/operazione-renata-dichiarazione-degli-imputati-distribuita-durante-il-processo-dappello/ & ripubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2023/02/19/ai-cuori-ardenti/]