In ricordo di Enrico Di Cola

In ricordo di Enrico Di Cola

Per me essere anarchico significa aver compiuto una scelta di vita. Non credo si possa essere anarchici solo a livello culturale o ideologico. È come vivo e mi relaziono con le altre persone, il mio modo di prendere delle decisioni che fa di me un anarchico o meno. È il mio sentire le ingiustizie fatte agli altri esseri (umani, animali o vegetali) come se fossero fatte contro me stesso. È il sentire un odio viscerale contro le ingiustizie e sopraffazioni. È il non riuscire a essere testimone passivo delle iniquità della società che mi circonda. È il vedere in ogni forma di potere, di gerarchia, di burocrazia un nemico da combattere e abbattere. È il tendere alla liberazione totale delle persone sia dalla schiavitù del lavoro salariato, che dai vincoli della famiglia intesa in maniera tradizionale, che dal giogo che viene imposto dalle religioni o dallo Stato. Per questo aspiro alla distruzione di ogni forma di istituzione chiusa, come i carcere, i manicomi (possono chiamarli in altri modi oggi ma sono e rimangono istituzioni aberranti e dannose). È il tentare di immaginare e applicare le idee anarchiche nella mia vita quotidiana. È l’adozione del metodo del consenso orizzontale, autogestito, senza delega. L’anarchia per me è l’ordine senza il potere, la realizzazione di una società autoregolata dove bisogni e i diritti di tutti siano rispettati. Non mi vergogno di dire che credo anche nell’Utopia, intendendo con questa parola la lotta continua che deve tendere al miglioramento delle relazioni umane e della società.

Il 26 maggio è morto Enrico Di Cola. In ricordo del compagno pubblichiamo di seguito un primo testo uscito il 26 maggio, un testo dal Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” di Carrara e le interviste “Domande personali per Enrico Di Cola (al di là dei verbali, delle veline e degli atti giudiziari)” e “Domande personali per Enrico Di Cola – richiesta precisazione su punti intervista, verbali, veline e atti giudiziari”, tratti dal sito internet “Strage di Stato”, gestito da compagni “ex” aderenti al Circolo anarchico 22 Marzo di Roma.


Enrico Di Cola [1951 – 2023]

È con dispiacere che annunciamo la morte, avvenuta stanotte [26 maggio 2023] a Londra alla fine di una lunga malattia, dell’anarchico Enrico Di Cola.

Enrico era diventato noto dopo la strage di Piazza Fontana, perché era l’unico del gruppo 22 Marzo che sfuggì all’arresto degli anarchici (Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, Emilio Borghese, Emilio Bagnoli e Roberto Mander) accusati della strage di Stato.

Dopo un’avventurosa latitanza in Italia decise, con gli anarchici del Gruppo Bakunin di Roma, di costituirsi in Svezia chiedendo asilo politico. Per richiedere l’estradizione l’Italia avrebbe dovuto spiegare le motivazioni dei mandati di cattura e i compagni speravano di fare in Svezia quel processo per la strage che lo stato italiano non voleva fare.

Enrico finì così per essere, in un mondo diviso in blocchi, l’unico occidentale a aver ottenuto l’asilo politico in un altro paese occidentale. Oltre all’asilo politico gli concessero il passaporto Nansen, rilasciato dalle Nazioni Unite, perché divenuto apolide.

Dopo l’ottenimento dell’asilo politico, seguitò a battersi per la liberazione dei compagni e, una volta smascherata la responsabilità di fascisti e servizi segreti nella strage, continuò a supportare i compagni in galera di tutto il mondo fondando la Croce Nera Anarchica in Svezia.

Contribuì a costituire la Federazione Anarchica Svedese, è stato nel comitato internazionale della SAC, il sindacato libertario svedese, ed ebbe anche un ruolo importante di collegamento tra i paesi dell’area scandinava e l’Internazionale delle Federazioni Anarchiche.

Trasferitosi a Londra continuò a essere attivo nel movimento anarchico. Resosi conto dei tentativi di riproporre le calunnie contro gli anarchici, diede vita all’associazione “Pietro Valpreda – Gli anarchici per la verità sulle stragi” e al blog Strage di Stato (https://stragedistato.wordpress.com/).


Dal Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” di Carrara, in ricordo di Enrico Di Cola

Il nostro amico, il nostro compagno, il nostro fratello Enrico Di Cola ci ha lasciati. Dopo tante sofferenze, è andato via che ancora scriveva, comunicava, condivideva idee e sogni di libertà e solidarietà con le sofferenze e le miserie umane dei più deboli e dei diseredati.

Indomito e combattivo fin dagli anni ’60, quando con i compagni Valpreda, Gargamelli, Valitutti, Bagnoli ed altri fu fagocitato dalla “strategia della tensione” messa in atto dallo Stato attraverso Servizi Segreti e bande fasciste al soldo dei potenti di allora.

Per capire l’immenso lavoro di controinformazione sapientemente creato da Enrico basterebbe immergersi nella miriade di documenti del blog https://stragedistato.wordpress.com, da lui aggiornato fino all’ultimo alito, senza soluzione di continuità. L’impegno militante, dopo la fuga in Svezia subito dopo la bomba di Piazza Fontana, lo ha visto promotore della Croce Nera anarchica in quel Paese e membro attivo dell’Internazionale anarchica, prima di trasferirsi a Londra dove ha proseguito le sue ricerche e le sue battaglie.

Nel 2019, cinquantenario della strage di Piazza Fontana, insieme a Roberto Gargamelli, Pasquale Valitutti, Emilio Borghese, venne a Carrara, invitato dal nostro Circolo e fu una manifestazione di grande, immensa empatia e comunione di intenti. Non dormimmo per due notti tante erano le cose che ci univano e ci raccontavamo.

La sorte ha voluto che i suoi desideri di trasferirsi in Italia e proseguire il suo impegno con i compagni che più sentiva affini non si siano concretizzati.

Enrico ha lasciato un grande vuoto nel cuore di tutti noi, Enrico è stato un fratello col quale condividere i nostri sogni e i nostri ideali.

Ciao Enrico


Domande personali per Enrico Di Cola (al di là dei verbali, delle veline e degli atti giudiziari)

Qualche anno fa, con l’ausilio di una nostra amica giornalista, pensammo di scrivere un libro sulla storia del gruppo 22 Marzo, il gruppo anarchico su cui più si è scritto in questi 50 anni ma al contempo, di cui nessuno aveva sentito l’esigenza di ascoltare i protagonisti di quella esperienza. Per vari motivi anche il nostro tentativo di scrittura collettiva fallì. Recentemente mi è capitata sotto gli occhi l’intervista che mi era stata fatta e ho deciso di pubblicarla. È un’intervista molto personale, è la mia storia.    

Che cosa significa per te essere anarchico?

Per me essere anarchico significa aver compiuto una scelta di vita. Non credo si possa essere anarchici solo a livello culturale o ideologico. È come vivo e mi relaziono con le altre persone, il mio modo di prendere delle decisioni che fa di me un anarchico o meno. È il mio sentire le ingiustizie fatte agli altri esseri (umani, animali o vegetali) come se fossero fatte contro me stesso. È il sentire un odio viscerale contro le ingiustizie e sopraffazioni. È il non riuscire a essere testimone passivo delle iniquità della società che mi circonda. È il vedere in ogni forma di potere, di gerarchia, di burocrazia un nemico da combattere e abbattere. È il tendere alla liberazione totale delle persone sia dalla schiavitù del lavoro salariato, che dai vincoli della famiglia intesa in maniera tradizionale, che dal giogo che viene imposto dalle religioni o dallo Stato. Per questo aspiro alla distruzione di ogni forma di istituzione chiusa, come i carcere, i manicomi (possono chiamarli in altri modi oggi ma sono e rimangono istituzioni aberranti e dannose). È il tentare di immaginare e applicare le idee anarchiche nella mia vita quotidiana. È l’adozione del metodo del consenso orizzontale, autogestito, senza delega. L’anarchia per me è l’ordine senza il potere, la realizzazione di una società autoregolata dove bisogni e i diritti di tutti siano rispettati. Non mi vergogno di dire che credo anche nell’Utopia, intendendo con questa parola la lotta continua che deve tendere al miglioramento delle relazioni umane e della società.

Come ti sei avvicinato all’anarchia? 

Fin da ragazzo sono stato un “ribelle”. Combattevo contro il grigiore e l’oscurantismo che permeava la società in quegli anni in tutti i gangli della vita: Chiesa, Patria, Scuola, e Famiglia.

Ho quindi iniziato contestando l’educazione remissiva che ci veniva imposto dalla religione, gli stereotipi e falsità dei valori tradizionali della famiglia, la lotta contro ogni forma di autoritarismo e soprattutto contro i metodi di insegnamento anacronistici nella scuola. Il mio impatto con la scuola – fin dalle prime classi delle scuole elementari – fu, per usare un eufemismo, a dir poco negativo.

Pochi oggi lo ricordano ma ai miei tempi era ancora consentito alle maestre di comminare punizioni corporali: se parlavi o ti muovevi durante l’ora della ricreazione ti veniva sequestrato il cibo, per un non nulla si finiva in ginocchio per ore, oppure – più di frequente – venivamo puniti con bacchettate sulle palme e il dorso delle mani, ci venivano tirate di orecchie e usati mille altri modi di punizione che servivano per piegarti e, soprattutto, umiliarti di fronte a tutti. L’unico modo che avevo per ribellarmi era quello di rompere le regole, di cercare di sfuggire al controllo. Nei miei primi 5 anni delle scuole elementari sarò espulso “da tutte le scuole del regno” – come ancora recitava il codice scolastico –  per ben tre volte, costringendo mia madre a inviarmi in istituti privati per non dovermi far interrompere gli studi e quindi perdere l’anno scolastico.

Intorno ai 13 o 14 anni, alle scuole medie (anche qui con numerose sospensioni da scuola e consequenziali bocciature) iniziai a ribellarmi in modo più organizzato e collettivo contro quel mondo assurdo e violento. Facevo, con altri compagni di scuola, piccoli sabotaggi (incatenamento dei cancelli, colla “saldante” nella toppe delle chiavi del portone della scuola…) solo per sentirmi ancora vivo e poter avere l’ultima parola. Non tardai molto a fare, organizzare, il mio primo sciopero: riuscito!), per chiedere di avere i cessi puliti (uso la parola che meglio descrive le condizione dei bagni) e per una maggiore libertà di parola e opinione nei confronti dei professori.

Per molti della mia generazione fortunatamente – sia pure come echi “da lontano” – giunsero dei richiami irresistibili a cui aderire: arriva la stagione dei “figli dei fiori”, degli Hippies, dei Provos, dell’antimilitarismo, dell’odio per le armi e tutte le guerre…

Per i più giovani è forse difficile capire fino in fondo la cappa che copriva tutti gli aspetti della vita e della società di quegli anni. Portare i capelli leggermente più lunghi della norma significava rischiare di essere derisi, insultati e perfino picchiati per strada. Stesso trattamento ci fu riservato quando iniziammo a portare le camicie a fiori, le collanine colorate, gli anelli e i braccialetti.

Se non si andava in chiesa si veniva messi all’indice dalla comunità del proprio quartiere, a scuola vigeva un ordine quasi militare e non si poteva mettere in discussione nulla di ciò che veniva detto dai professori. Per non parlare della rigida separazione dei sessi nelle scuole.

La mia presa di coscienza politica inizia nel 66/67 quando il mio miglior amico e compagno di scuola, Severino (figlio di un operaio edile comunista, e lui stesso simpatizzante della FGCI ), mi chiese di accompagnarlo a una manifestazione per il Vietnam. Sono con lui quasi alla testa del corteo quando la celere, senza provocazioni o preavviso alcuno, carica lo spezzone in cui mi trovavo con una tale violenza cieca che mi lascerà per sempre segnato. È allora che inizio a leggere dei libri e i giornali per cercare di capire.

Poi arriva il vento del ’68 e mi trovo subito politicamente coinvolto e partecipe di quell’ondata di rivolte e lotte, in quel meraviglioso tentativo di rottura delle catene della società capitalista contro cui, prima di allora, mi ero battuto a livello individuale. È così che scopro per la prima volta di non essere solo, che i miei sogni erano anche gli stessi di tanti ragazzi della mia età.

Il ‘68 fu essenzialmente un movimento liberatorio e libertario e poiché mi era capitato di leggere tra quei miei primi libri politici gli scritti di Bakunin – per la prima volta avevo trovato qualcuno che spiegava le stesse cose che io fino a quel momento avevo solo rozzamente pensato – non potei fare a meno di definirmi anarchico.

Nel 1969 avevo iniziato a fare politica già da alcuni anni. Mi consideravo anarchico, seppur non legato a nessun gruppo, e in quella logica ho agito, prima come “cane sciolto” all’interno di alcune associazioni culturali (la prima fu all’interno di una sezione del PCI vicino piazza Asti, la “Paolo Rossi” ) e del nascente movimento studentesco.

All’epoca, nel 67-68, ero uno studente medio che frequentava l’istituto tecnico industriale “Francesco Severi” di via Casal de Merode, vicino Piazza dei Navigatori (zona EUR). Il Severi” era un istituto tecnico molto distante da dove abitavo, ma era l’unico che mi aveva accettato. Quasi da subito (era l’aria del ’68) si formarono dei gruppi di compagni più politicizzati che presero contatto tra di loro. Uno era composto da giovani della FGCI e l’altro da compagni più di sinistra, di movimento, tra cui un nutrito gruppo di anarchici (molti dei quali ruoteranno attorno al 22 Marzo quando si costituirà). Ricordo che la prima cosa che facemmo fu una inchiesta sul ceto sociale di provenienza (sul numero dei “ripetenti”, sulla distanza dalla scuola) degli studenti che ci fece scoprire che eravamo una specie di scuola “cestino di rifiuti” composta prevalentemente da studenti provenienti da famiglie operaie, di pluri-bocciati (ripetenti), una scuola che raccoglieva ragazzi (c’erano anche tre ragazze: era una vera novità in una scuola tecnica dell’epoca) provenienti dai quartieri più disagiati e disparati della città arrivando a lambire anche Ostia, Acilia e dintorni.

Se non ricordo male fummo anche uno dei primi istituti tecnici romani a praticare l’occupazione della scuola, seguendo l’esempio di alcuni licei. Durante l’occupazione avvennero le prime schedature: la polizia passava per la scuola accompagnata dal preside e schedava chi si trovava all’interno dell’edificio.

Durante un picchettaggio effettuato davanti alla scuola (per andare a confluire, dopo un passaggio davanti ad altri licei e istituti della zona per raccogliere i manifestanti), a una manifestazione cittadina del MS, il Preside fece intervenire la polizia che ci sgombrò da davanti il cancello e dal marciapiede di fronte la scuola (occupazione di suolo pubblico).

Poco distante dal cancello della nostra scuola vi erano anche, sulla sinistra l’ingresso di una succursale del Liceo artistico e, sulla destra ma poco più giù, il cancello di un’istituto tecnico professionale . Vedendo che gli accessi a queste scuole erano aperti e non presidiati dalla polizia decidemmo – alcuni di noi più ardimentosi e spericolati – di “provocare” la polizia ribadendo al contempo i nostri diritti; quindi – a due a due – iniziammo a traversare la strada e camminare su e giù davanti a questi cancelli gridando slogan.

Alla polizia non piacque questa nostra bravata, e uno alla volta fummo fermati e portati via, a sirene spiegate, al commissariato di zona più vicino: quello di Garbatella. Qui venimmo identificati, interrogati e minacciati. Contro di me venne compilato un verbale in cui venivo incriminato per “adunata sediziosa”, interruzione di pubblico servizio, propaganda sovversiva (avevo al collo un fazzoletto rosso!) e altre dabbenaggini del genere.

Durante il nostro fermo, ci fu un passaparola e compagni della FGCI e PCI di zona – assieme a compagni del MS e della scuola si portarono davanti al commissariato per esprimerci solidarietà e chiedere il nostro rilascio. Credo, ma non ricordo bene, che intervenne anche il segretario della sezione del PC della Garbatella, per chiedere la nostra liberazione, e in effetti venimmo liberati dopo alcune ore. Non so cosa avvenne di quelle denunce (probabilmente amnistiate), ma credo che non mi venne mai notificato nulla (presto passerò alla latitanza e quindi all’esilio per cui non posso sapere con certezza queste cose).

Voglio ricordare un’altro episodio che avvenne poco prima del fatidico 12 dicembre 1969. Altro picchettaggio e polizia a presidiare la scuola. Durante una vivace discussione tra noi del picchetto e un professore fascistoide (diversi professori, più giovani, invece simpatizzavano con noi e ci sostenevano negli scioperi e nelle occupazioni) costui estrae improvvisamente dall’automobile un’accetta, afferra un compagno del picchetto per la gola (“Enricone”) e lo minaccia di morte. Tutto questo avviene davanti gli occhi esterrefatti – i nostri – e imperturbabili – quelli della polizia –, che anziché disarmarlo e arrestarlo aprono un varco per farlo entrare nella scuola con l’ostaggio!

Di fronte a questo allucinante episodio, avvisammo l’agente di grado superiore che comandava i poliziotti che se il compagno non veniva rilasciato immediatamente – gli demmo 10 minuti di tempo – saremmo entrati con la forza e lo avremmo liberato noi stessi. Al passare dei 10 minuti (nel frattempo avevamo provveduto ad armarci di bastoni) sfondammo lo schieramento di polizia e ci precipitammo verso lo scalone della scuola. Proprio in quel momento uscì il Preside con alcuni professori e il nostro compagno che era stato preso in precedenza in ostaggio. Ci venne detto che il professore responsabile di quell’ignobile episodio era fuggito passando per uno degli ingressi posteriori. A distanza di tanto tempo non ricordo bene se occupammo nuovamente la scuola, mentre altri di noi si diressero verso il concentramento che era stato convocato, per manifestare per le vie di Roma.

Quello che successe dopo non lo so bene, perché quando questo episodio venne “rivangato” da non so bene da quale magistrato, io ero già latitante da tempo e quindi non potei prestare testimonianza.

In quegli anni, sia perché eravamo “tecnici” ma soprattutto grazie al fatto che eravamo stati i primi a occupare, eravamo molto richiesti per fare i picchettaggi nei licei della zona, dove i compagni erano più timorosi nel mostrarsi apertamente oppure dove i fascisti erano più forti. Eravamo conosciutissimi da tutti (e quindi anche dalla polizia naturalmente) i compagni del movimento studentesco romano, e in special modo da quelli della zona Eur-Garbatella con cui ci incontravamo regolarmente. Da tempo, assieme a compagni del movimento universitario della zona, avevamo creato un coordinamento e svolgevamo continue – ed estenuanti come si usava allora – assemblee presso un circolo culturale a San Saba (vicino alla Piramide).

Il discorso della lotta di “liberazione”, all’epoca, si era già spostato oltre le mura della scuola (cioè andando oltre le rivendicazioni settoriali: dequalificazione, scuole fatiscenti e non attrezzate, ecc.) per allargarsi all’orizzonte della società tutta, ma anche – e in quegli anni non poteva essere diversamente – in quelli della prospettiva del cambiamento radicale della società stessa. Ovvero la prospettiva di un cambiamento rivoluzionario.

Ricordo un intervento politico in solidarietà con le lavoratrici della Standa della Garbatella che erano entrate in agitazione per rivendicare contratti salariali e orai più decenti. Ci presentammo alla Standa in gruppetti di due o tre (eravamo una dozzina circa), ci recammo al piano inferiore dove si trovava il supermercato e – a un segnale convenuto – iniziammo la nostra azione di protesta. Ogni gruppo “armato” di carrello, passeggiava per il supermercato gridando slogan tipo; “come sono i salari” si urlava da una parte, e dall’altro lato si rispondeva urlando “bassi!”, e altre cose di questo tipo, e nel mentre si girava riempivamo i carrelli di merce. Il tutto si svolgeva sotto gli occhi divertiti e solidali del personale della Standa e di molte massaie, e lo sconcerto e preoccupazione degli agenti privati che ci seguivano in questa processione senza sapere cosa fare. Dopo una mezz’oretta di questo intervento politico (il tempo che avevamo calcolata fosse necessario alla polizia prima di essere chiamata e poter intervenire), ci recammo alle casse con i nostri carrelli stracolmi di merci per acquistare…un lecca-lecca o una gomma americana (il diritto di ogni acquirente quando arriva alla cassa di avere un ripensamento).

Mentre risaliamo la scala mobile per uscire però troviamo la brutta sorpresa della polizia già pronta a riceverci (all’epoca non c’era tanto traffico come oggi evidentemente). Ai compagni che si trovavano sui primi gradini della scala mobile non rimase altra soluzione che tentare una “carica” contro i poliziotti per cercare di sfondare l’accerchiamento – cosa che in parte riuscì – e che permise a noi che ci trovavamo alle loro spalle di fuggire in tutte le direzioni, aiutati dalle commesse che ci indicavano le direzioni giuste per raggiungere le uscite. Almeno quattro di noi saranno fermati e portati al commissariato di Garbatella. Ennesimo passaparola, qualche telefonata, solito raggruppamento davanti al commissariato per chiedere il rilascio dei fermati, che dopo qualche ora vengono rilasciati.

Il coordinamento di zona faceva, naturalmente, parte del coordinamento cittadino del MS romano. I temi ormai all’ordine del giorno della nostra attività erano molteplici e toccavano vari aspetti della vita e della politica Volantinaggi e manifestazione con i pendolari vicino a via di Castro Pretorio (dietro la stazione Termini), dove partivano gli autobus per molte destinazioni delle periferie romane e per i Castelli. Gli autobus erano vecchissimi, i biglietti cari, e gli orari pessimi.

Contro la “società dei consumi”, pochi giorni prima di Natale, organizzammo un “serpentone rosso” nelle vie “nobili” di via Fratina e via Condotti. Si dovevano raggiungere queste strade a gruppi piccoli e in ordine sparso e attendere per una certa “ora x”. Arrivata “l’ora x” dovevamo portarci nel centro della strada, srotolare un lunghissimo telo rosso e poi iniziare la nostra manifestazione. Credo che ci presentammo in oltre un centinaio di compagni, provocando un vero “terrore” tra le tante signore bene, impellicciate e piene di pacchi regalo dai prezzi esorbitanti. Qualcuno aveva anche portato dei “tric trac” che vennero lanciati ed esplodevano mentre passava il serpentone rosso. Poi ci dileguammo. Non credo che nessuno venne fermato in questa occasione.

Altro terreno di intervento era quello tra/con i baraccati. Chi non ha vissuto quegli anni avrà sicuramente difficoltà a capire il dramma sociale che vivevano decine e decine di migliaia di persone (soprattutto del Sud ma non solo) costrette a vivere in queste gigantesche baraccopoli che circondavano o si inserivano in varie zone della città. Il tema della casa e del doposcuola per i ragazzi che vivevano in queste realtà era un tema che non potevamo – come sinistra – non affrontare e su cui si intervenne in modo serio e continuato.

In tutto il 68 e il 69 (fino al 12 dicembre ovviamente) ho partecipato a centinaia di assemblee, coordinamenti di zona, cittadini, sia degli studenti medi che quelli universitari, nonché a un numero ragguardevole di picchettaggi, manifestazioni e volantinaggi. Non è affatto strano ciò: come anarchico per me era naturale che il personale e il politico fossero un tutt’uno. La partecipazione, l’essere presente dove si facevano e decidevano le cose, era per me fondamentale. Non era un peso, ma il mio modo di essere e vivere, un modo per realizzare la voglia di cambiamento che si respirava nell’aria e sentivo nel mio cuore.

Forse oggi è difficile capire fino in fondo cosa per molti di noi volesse dire essere militanti a tempo pieno, le rinunce e i sacrifici che si facevano (ma che tali allora non ci parevano), per l’ideale e per la rivoluzione… (che ai nostri occhi di diciottenni sembrava così facile da raggiungere e prossima a venire).

Con diversi altri compagni di scuola fin dal ’68 avevamo formato un gruppo, una comunità di compagni anarchici nella scuola. Eravamo il gruppo più forte e influente della scuola e non c’era sciopero o azione che non fosse concordata con noi. Eravamo un gruppo di compagni di scuola e amici ma non eravamo un gruppo organizzato nel senso tradizionale della parola. Quando aprì le sue porte il “Bakunin”, inevitabilmente fummo contenti e attratti dalla prospettiva di incontrare altre realtà anarchiche della nostra città. Alcuni di questi miei compagni di scuola – che poi parteciperanno alla nascita del circolo 22 Marzo – hanno nomi più noti del mio: Roberto Gargamelli, Emilio Borghese, Angelino Fascetti, Amerigo Mattozzi… solo per citarne alcuni.

Come è nato il 22 Marzo?

Per parlare del 22 Marzo è necessario fare un passo indietro e parlare del Circolo Bakunin.

Ho ancora vivo in me il ricordo della manifestazione per il primo maggio del 1969. Vi erano vari concentramenti della sinistra extraparlamentare e del movimento studentesco in diverse parti della città che poi dovevano convergere in uno spezzone che, unitariamente, doveva fare il suo ingresso a piazza San Giovanni dove vi era il concentramento dei sindacati e del Pci. Io, “Enricone”, e Gargamelli, non ricordo se ci fosse qualcun altro con noi, ci recammo al concentramento di piazza dei Re di Roma che si trovava a pochi minuti da dove allora abitavamo. Ricordo la nostra meraviglia e la gioia nel vedere alcune bandiere e uno striscione degli anarchici: era la prima volta da tantissimi anni che gli anarchici romani uscivano in maniera ufficiale e organizzata a una manifestazione per il primo maggio. Nella piazza vi erano migliaia di compagni e altri se ne aggiunsero poi all’arrivo degli altri spezzoni di dimostranti dalle altre zone della città. La nostra gioia fu interrotta all’arrivo del corteo a San Giovanni dove i mazzieri del servizio d’ordine del PCI e sindacato tentarono di impedire il nostro ingresso nella piazza. Inizialmente riuscimmo a sfondare il cordone degli energumeni sindacali ma poi questi chiesero l’intervento della celere in loro difesa che prontamente intervenne caricando. Dopo un primo breve scontro, fummo respinti nella direzione di Santa Maria Ausiliatrice e da qui decidemmo di proseguire in corteo fino a San Lorenzo dove, lì giunti, ci sciogliemmo per evitare ulteriori provocazioni poliziesche. Alla manifestazione conobbi diversi compagni che poi formeranno il circolo “Bakunin” (non avevano ancora una sede).

Qualche tempo dopo leggiamo su Umanità Nova che era stato aperto il Circolo anarchico “M. Bakunin”. È il primo circolo anarchico a nascere a Roma, prima di questo non vi era nessun punto di aggregazione per gli anarchici (in realtà vi era il Cafiero, ma noi non lo sapevamo). Con i miei compagni di scuola iniziamo a frequentare questo gruppo.

Al “Bakunin” incontriamo Valpreda, Roberto Mander, Ivo Della Savia, Claudio Gallo, Bianca, Giovanna, Cosimo “Mino” Caramia, Gigi, Giovanni Ferraro, Roberto “Cristus” Giuliani, Umberto Macoratti e tanti altri ancora. Qui conoscemmo anche altri due personaggi che diventeranno tristemente famosi: il fascista Mario Merlino e il poliziotto Salvatore Ippolito conosciuto col nome di Andrea.

In questi primi mesi di attività ci sentiamo, e siamo, parte attiva del Bakunin. Partecipiamo alla manifestazione del 13 settembre davanti il carcere di Regina Coeli per protestare contro gli arresti dei compagni anarchici incriminati per gli attentati del 25 aprile. Il 25 settembre io con Pietro Valpreda e Leonardo Claps (Steve) iniziamo uno sciopero della fame sulle scalinate di Piazza Cavour del Palazzo di Giustizia, finita la quale ci recammo – noi tre e Gargamelli a Milano per portare la nostra solidarietà al compagno Michele Camiolo che stava portando avanti lo sciopero della fame da diverse settimane. A ottobre si verificano due fatti: la nostra intervista a Ciao 2001 e il famoso episodio del volantino (lo firmammo come Gruppo B. Durruti) che i compagni del Bakunin ci contestarono per il contenuto e a cui strapparono la frase “ciclostilato in proprio via Baccina 35”.  Fu questo episodio di censura – che ci indignò – a funse da detonatore nei nostri rapporti con i “vecchi” del Bakunin e che, piano piano, ci portò alla decisione di formare un gruppo nostro e lasciare il Bakunin.

Va però detto che i rapporti con i compagni del Bakunin non si ruppero affatto con la nostra uscita. Il 27 ottobre io, Muky, Bagnoli e Valpreda siamo a Reggio Calabria per solidarizzare con i compagni Angelo Casile e Gianni Aricò che dovevano essere processati assieme ad altri due compagni. Al nostri ritorno a Roma consegniamo un breve resoconto del processo ai compagni del Bakunin che sarà poi pubblicato su Umanità Nova – il 15 novembre – a firma il gruppo 22 Marzo di Roma.

Fu durante gli otto giorni di sciopero della fame – di sofferenza e vita condivisa – che si creò una forte solidarietà e amicizia con molti compagni che ci frequentavano e sostenevano in quella nostra protesta. Da quel momento mi è difficile parlare di me al singolare, perché mi sentivo già parte di un gruppo e ogni mia azione era basata sulla condivisione.

Partecipiamo assieme a varie manifestazioni, facciamo quella che noi chiamavamo una “azione esemplare” (e che secondo i giudici può essere un atto di teppismo o terrorismo): assieme a delle famiglie di sfrattati costruimmo, di notte, un muretto davanti alla porta dell’ufficio dell’immobiliare del Vaticano che li aveva sfrattati e riempimmo le scale di scritte.

Con Valpreda, Claps e Gargamelli mi recai a Milano (nessuno di noi aveva soldi e quindi si viaggiava solo in autostop) per portare la nostra solidarietà al compagno Michele Camiolo che era in sciopero della fame da quasi un mese, sempre per chiedere la liberazione dei compagni arrestati con l’accusa di aver messo le bombe fasciste del 25 aprile e sui treni. Con Valpreda, Bagnoli e Mucky andammo a Reggio Calabria per portare la nostra solidarietà ai compagni Angelo Casile e Gianni Aricò che dovevano essere processati. Di lì ci recammo a Pisa subito dopo assassinio dello studente Cesare Pardini, e allacciammo rapporti con un gruppo che, se non ricordo male, si chiamava Il Potere Operaio pisano.

Da Pisa con Valpreda e Bagnoli ci rechiamo al convegno della FAI-FAGI a Carrara e quindi a quello dei GIA a Empoli… Ci incontriamo, fraternizziamo, discutiamo e prendiamo contatti con centinaia di compagni “di strada” con cui vogliamo portare avanti il nostro percorso politico e di lotta. In questo periodo intenso finisco anche in galera per la prima volta: si tratta della famosa rissa a Trastevere (19 novembre), che in realtà altro non fu che un’aggressione organizzata contro di noi, in cui una ventina di fascistelli ci assalì di sorpresa davanti a dei poliziotti in borghese che intervennero solo dopo che gli aggressori si erano dileguati. Valpreda e Gargamelli stavano cercando di farmi rinvenire con l’acqua fresca di una fontanella (aggredito da quatto o cinque teppistelli fui colpito da un calcio ai testicoli e svenni) quando i poliziotti decisero di intervenire… per arrestarci.

Vi eravate accorti degli infiltrati fasci-guardie? 

Siamo stati etichettati come decerebrati e questa nomea ci ha accompagnati sino a oggi. Stranamente tale domanda non viene mai rivolta ai compagni di Milano che tra di loro avevano un personaggio come Enrico Rovelli (Anna Bolena) che è stato colui che hai indicato la pista Valpreda-Pinelli e che ha potuto continuare fino al 1974 a fare opera di provocazione e delazione. Per non parlare di personaggi perlomeno ambigui come Sottosanti o Bertoli!

Che dovremmo poi dire del PCdI, che si intratteneva e riceveva finanziamenti di un certo signor Ventura, oppure delle decine di spie in Lotta Continua o nel PCI… Certo, noi siamo stati colpiti e duramente, ma questo non basta di certo per renderci più “ingenui” degli altri gruppi della sinistra.

Non voglio fuggire alla tua domanda ma ci tengo a precisare che la mia risposta sarà individuale (almeno in parte) più che collettiva. Ci eravamo accorti di essere stati infiltrati? Ma certo che si. Lo prova la nota lettera inviata da Pietro Valpreda al suo avvocato nel novembre del ’69 in cui gli dice chiaramente che c’è una spia tra di noi. Stranamente tale lettera, pur se pubblicata fin da subito dopo la strage e nel libro Strage di Stato, non viene poi rammentata quando ci pongono tale domanda. È uno dei “fatti” dimenticati. Quando a ottobre io Pietro e Robertino (Gargamelli) siamo arrestati per rissa e portati al carcere di Regina Coeli, viene fermato un nostro giovane compagno – Angelino Fascetti – perché sospettato per un attentato alla caserma dei carabinieri. A lui vengono contestate delle frasi “precise” dette all’interno del nostro circolo: era quindi ovvio che vi era una spia tra di noi oppure che vi fossero dei microfoni (anche se all’epoca in realtà non erano molto comuni). Io e alcuni compagni di cui più mi fidavo, ci siamo incontrati e abbiamo stilato un elenco di 4 nomi delle persone che ritenevamo potessero essere degli infami: due di questi nomi erano proprio quelli di  Merlino e “Andrea”.  Di questi nostri sospetti non ne parlammo con gli altri compagni del gruppo, perché non volevamo gettare accuse contro delle persone senza avere prove. Pensavamo fosse – prima di tutto – necessario indagare con discrezione, senza mettere inutilmente in allarme i sospettati. Non abbiamo però avuto il tempo materiale per poterlo fare.

 “Andrea” – la guardia di PS Salvatore Ippolito – a me non era mai piaciuta e non credo di avergli mai rivolto la parola o essere andato oltre il “ciao” di cortesia. Non capivo cosa facesse assieme a noi e mi disgustava il suo modo rozzo e pesante di “corteggiare” le compagne.

Di Merlino inizialmente mi ero fidato anche se trovato strano il suo linguaggio ma pensavo fosse dovuto al suo “passato” di fascista e che doveva ancora liberarsi da quelle scorie ideologiche. Oggi però, visto che stiamo scrivendo la nostra storia, credo sia ora di aggiungere qualche particolare in più per far capire perché io lo sospettassi, avessi la certezza, che fosse un infiltrato e provocatore.

Nel libro Strage di Stato vi sono riportate alcune testimonianze anonime. Una di queste è la seguente: Testimonianza n. 5. «Merlino una volta invitò me e altri due anarchici del circolo Bakunin in casa sua per discutere “alcune cose molto riservate”. Non ricordo con esattezza il periodo ma credo che fossero gli ultimi giorni di settembre o i primi di ottobre. Quando arrivammo da lui lo trovammo assieme a un suo amico, un certo Roberto, che si presentò come un ex camerata convertitosi all’anarchia. Disse che aveva un’edicola di giornale all’EUR. Dopo un breve preambolo Merlino ci propose la costituzione di un commando terroristico, dicendo che una persona a lui molto vicina era in possesso di materiale informativo sulla fabbricazione di ordigni esplosivi. Il suo amico aggiunse che egli era in grado di procurarsi del “materiale”.

Merlino ci invitò a casa sua due volte. La prima volta ci propose una azione di sabotaggio alla Fiat di viale Manzoni, organizzata in questo modo: alcune auto avrebbero bloccato le vie adiacenti per ostacolare l’arrivo della polizia, mentre gli altri compagni sarebbero penetrati all’interno e dopo aver tagliato con dei coltelli i tubi dei distributori avrebbero appiccato il fuoco alla benzina fuoriuscita. Così – ci disse – sarebbe saltato tutto in aria. La volta successiva ci propose di assaltare una caserma situata nei pressi di casa sua, della quale diceva di avere una pianta dettagliata, per portare via armi e munizioni. In quella occasione era presente alla riunione un altro suo amico, che noi non conoscevamo, il quale disse di essere in possesso delle piante di vari tralicci della televisione che si potevano far saltare. Aggiunse che se le era procurate quando lavorava come disegnatore, presso l’ingegnere che aveva realizzato il traliccio Tv di Viareggio. Noi, comunque. lasciammo cadere queste proposte perché contrarie al nostro concetto di “azione esemplare”». (Mia NOTA: su questa testimonianza vedi anche interrogatorio di Marco Ligini, da notare che Marco dice di averla avuta da altra persona e non da me, come in effetti avvenne. Forse perché ero già ricercato quando mi incontravo con lui).

Questa testimonianza, seppur non corretta in tutti i dettagli nel libro, è sicuramente una di quelle che diedi io ai compagni della controinformazione. È una testimonianza che prova che Merlino ebbe non solo un ruolo di spia al nostro interno (verso Delle Chiaie e non si sa bene chi altri) ma anche il  ruolo di provocatore (mancato). Io e l’altro compagno che venne con me (non altri due, quindi) ci insospettimmo – sia perché ai nostri incontri trovammo uno sconosciuto, sia perché ci proponeva di fare delle cose che a noi non piacevano o interessavano – e quindi decidemmo di rompere ogni tipo di rapporto con Merlino. Quello di cui mi pento oggi, è di non aver mai parlato con gli altri compagni di questi incontri. Ma allora mi sembrava ovvio non farlo: non volevo compromettere nessun compagno in quella storia.

Poi magari si tornerà su questo punto, sul punto Merlino, ma vorrei sottolineare che da quel momento Merlino sparì dal circolo, non si fece più vedere o sentire. Probabilmente aveva terminato il suo lavoro come provocatore fallito e spia e quindi aveva ritenuto utile “distanziarsi” da noi adducendo a pretesto, prima che doveva prepararsi per degli esami, e poi che era influenzato. Come si sa, anche dagli atti, a un certo momento alcuni compagni decisero di passare per casa sua a vedere come stava e trovandolo in perfetta salute lo invitarono a tornare al circolo, cosa che lui fu costretto a fare. Credo che sia questa la ragione per cui Merlino da “testimone” contro di noi sia poi inevitabilmente diventato anche imputato. Se non fosse stato “costretto” a tornare a frequentarci (molto saltuariamente per la verità) avrebbe potuto cavarsela accusandoci e dicendo che lui aveva capito la nostra pericolosità per tempo e per questo si era distaccato da noi.

Quello che ti posso dire è che sapevamo con certezza che eravamo controllati e seguiti passo passo. Solo la stupidità di un poliziotto o magistrato potevano arrivare a credere  che in una situazione del genere, in cui ci si sospettava a vicenda, si potessero tranquillamente programmare attentati.

Come è cambiata la tua vita dopo il 12 dicembre 1969?

Dopo due interminabili anni di latitanza in giro per l’Italia, riuscii a fuggire in Svezia dove ottenni l’asilo politico (credo di essere stato il primo e unico cittadino italiano a ottenere tale status di rifugiato e il passaporto Nansen – rilasciato delle Nazioni Unite – in quanto apolide.).

In Svezia ho dovuto ricominciare tutto da capo. La polizia e la magistratura italiana impedirono a mia madre persino di inviarmi i certificati scolastici, per cui dovetti prima imparare la lingua e poi tornare sui banchi di scuola svedesi e ricominciare da capo (elementari, medie, liceo…). A mia madre, vedova, venne addirittura negato il passaporto per venirmi a trovare, finché non compii i 21 anni (la maggiore età all’epoca) perché altrimenti avrebbe lasciato in Italia un figlio minore (cioè io, che ero già all’estero)! Ho così impiegato anni …per tornare al punto di partenza!

Comunque non mi lamento, anzi mi sento fortunato perché almeno ho evitato – a differenza dei miei fratelli e compagni – l’orrore di passare tre anni in galera senza sapere se la nostra innocenza sarebbe mai stata riconosciuta e i cancelli di ferro si sarebbero mai riaperti davanti a noi.

Ho fatto tante cose e ho vissuto tante esperienze che mi hanno formato. Ma certamente non posso dire che ho fatto quello che desideravo, quello che sognavo di fare a 18 anni! E, certo, rimane il peso degli interminabili anni di esilio, la rottura da un giorno all’altro, di tutti i miei rapporti con la famiglia, con gli amici, con la ragazza… del dopo 12 dicembre io parlo come della mia seconda vita, di un’altra vita.

In Svezia non ho smesso un sol giorno di continuare a lottare per i miei ideali e per la liberazione dei compagni incarcerati. Ho creato gruppi anarchici (tra cui l’AKO), e contribuito a rimettere in piedi la Federazione Anarchica Svedese (AFIS), ho lavorato nel Comitato Internazionale del sindacato libertario SAC, ho creato la Crocenera anarchica svedese, lavorato per sindacalizzare i detenuti affinché potessero far sentire le loro voci e rivendicazioni, sono stato tra i promotori dell’associazione di amicizia con l’AIT per la Scandinavia (la SAC ne era fuoriuscita), creato il Comitato Pinelli con anarchici e sindacalisti, ho mantenuto i rapporti con l’IFA…. questo e tanto altro ancora. Però, inevitabilmente data la mia esperienza personale, ho sempre privilegiato il lavoro di solidarietà internazionale con i compagni incarcerati in ogni angolo del mondo.

Questa è stata la mia vita politica. Sul lato umano e personale l’esperienza della persecuzione per il 12 dicembre e la lunga latitanza mi ha modificato fortemente. Ma di questo, ancora oggi, preferisco non parlarne, perché sono cose che attengono la mia vita più intima e privata.

E dal punto di vista ideologico cosa è cambiato?

Non so bene a cosa alludi con questa domanda. Se al mio punto di vista politico di oggi o alla situazione generale. Siccome non stiamo scrivendo la mia storia personale mi limito a dire che oggi a livello ideologico, per me, nulla è cambiato. Mi sento anarchico esattamente come lo ero quasi cinquanta anni fa. Forse ti farà sorridere, ma credo di essere rimasto in qualche modo “ibernato” al modello anarchico di quegli anni. Ho difficoltà a inserirmi e capire fino a fondo gli anarchici di oggi, ma anche con gli anarchici della mia generazione. Non riesco a capire tante litigiosità, tante forme burocratiche che credevo definitivamente superate. Mi sembra che oggi si tenda troppo a “uniformare” piuttosto che riconoscere la ricchezza delle differenze al nostro interno. Vedo poco rispetto reciproco, e soprattutto poca propensione allo stare all’interno dei processi sociali in atto in questa società in disintegrazione. Si parla troppo e si agisce troppo poco. Bada che questa non è solo una critica ma anche un’autocritica. Non mi spingo oltre perché è mio costume di una vita di dire cose che poi sono disponibile in prima persona a fare. Oggi sono troppo vecchio e malandato per permettermi il lusso di proporre cose, di fare azioni che credo necessarie. È un mio limite.

Che conseguenze ha avuto l’inchiesta sulle bombe di Roma e Milano sulla tua vita?

Credo di averti già risposto su questo punto con le cose che ho già detto. Ma sono disponibile a ulteriori precisazioni se lo ritieni necessario.

Ti riconosci in quello che la produzione libraria degli ultimi quarantaquattro anni ha raccontato su di voi?

Su questo punto sarò telegrafico: no! Anche il libro migliore scritto su di noi non fa altro che interpretarci in base a verbali, atti della magistratura o veline dei vari servizi segreti. Nessuno fino a oggi si era ancora preso il disturbo si sentire la nostra opinione. Vorrei sottolineare che neppure da parte di autori anarchici – Le bombe dei padroni di Crocenera, Noi accusiamo di Vincenzo Nardella e il più recente Bombe e segreti di Luciano Lanza – si è sentita questa necessità di sentire i testimoni diretti dei fatti. Certamente è vero che i primi due libri sono stati scritti “a caldo”, ma comunque vi erano almeno una decina di nostri compagni in libertà che potevano essere facilmente sentiti, mentre meno giustificato è il libro di Lanza che poteva fare un lavoro più accurato senza problema alcuno visto tutti erano in libertà e facilmente contattabili.

Rifaresti tutto quello che hai fatto?

Quando posso ricominciare? Certo che si! Non mi pento di nessuna delle scelte fatte allora e rifarei esattamente tutto da capo. Errori compresi. Credo negli stessi valori di allora, nelle stesse cose, e sogno ancora che un mondo migliore sia non solo possibile ma anche necessario. Perché non dovrei voler ripercorrere gli stessi sentieri? Mi sentivo nel giusto allora, come mi sento ancora oggi di esserlo stato. Non posso certo tornare indietro nel tempo, ma posso certamente continuare – e mi sforzo di farlo – sulla stessa strada di allora, anche se appesantito dagli anni, dagli acciacchi ma anche arricchito da un bagaglio di conoscenze e esperienze che spero mi aiutino a non smarrire la strada.

C’è qualche rimpianto?

È naturale e umano rimpiangere gli anni della propria giovinezza. Nel mio caso rimpiango il fatto che il mio circolo non abbia avuto il tempo di maturare e crescere, perché sono certo che molte differenze con gli altri compagni anarchici di Roma sarebbero state risolte in modo positivo, e perché – ancora oggi – credo che la nostra esperienza politica avesse delle possibilità di svilupparsi positivamente. Ma, soprattutto, non vorrei aver sofferto la rottura improvvisa e lacerante, provocata dalla mia latitanza, con quei compagni che non solo rappresentavano tutto il mio mondo di allora ma che mi erano anche cari, come fratelli.

Quello che più mi manca oggi è di non poter riassaporare il clima di quegli anni sino in fondo. In qualche modo il mio mondo si è fermato il 12 dicembre e tutto è rimasto congelato a quel momento. Ma in realtà ti sto dando dei miei “desiderata” più che dei rimpianti. Serenamente posso dire di non avere rimpianti. La mia vita, dopo il 12 dicembre, è cambiata radicalmente ho passato anni di sofferenza estrema e di solitudine, ma poi – come è normale nella vita – è proseguita in maniera felice e piena. Non credo che vivendo in Italia avrei mai potuto conoscere e vivere tanti luoghi e esperienze di vita come quelle che ho vissuto nella clandestinità prima e fuggendo all’estero poi. Sono una persona totalmente diversa da quella di allora ma non posso certo rimpiangere la vita di un Enrico – come sarebbe potuto essere – che mi è sconosciuta e che non ho mai vissuto. Non posso sapere se sarebbe stata meglio o peggio, ma solo che sarebbe stata differente. Non ho mai rimpianti su quello che non è stato.

[Tratto da https://stragedistato.wordpress.com/2019/12/08/domande-personali-per-enrico-di-cola-al-di-la-dei-verbali-delle-veline-e-degli-atti-giudiziari/]


Domande personali per Enrico Di Cola – richiesta precisazione su punti intervista, verbali, veline e atti giudiziari

Partiamo dall’interrogatorio del 12 dicembre ore 23:55. Innanzitutto mi piacerebbe che rispondessi alle stesse domande che ti hanno fatto i carabinieri senza le omissioni che ovviamente hai fatto in sede di interrogatorio. È vero che hai subito minacce di morte, come racconti nell’intervista rilasciata a Crocenera anarchica nel 1972?

Certo che si, è verissimo. Il mio è stato in realtà un unico interrogatorio – iniziato il 12 sera e durato fino alla serata del 13 – da cui hanno tratto 3 verbali. Non ho potuto dormire, mangiare, andare in bagno e per ore mi hanno preso a schiaffi, tirato i capelli e i baffi. Tutto questo avveniva nel buio quasi totale tranne la luce della lampada che mi avevano puntato in faccia per cui non potevo prevedere quando e dove sarebbe arrivato il colpo. Questo trattamento mi è stato riservato perché volevano costringermi a mettere per scritto – oppure firmare un foglio in bianco – che Pietro era partito per Milano con una scatola per le scarpe piena di dinamite. Al mio rifiuto a “collaborare” hanno cercato di blandirmi, di comprarmi (dacci Pietro e noi ti faremo ricco e tu uscirai dall’inchiesta, altrimenti…). Questo trattamento si interruppe all’improvviso, quando un carabiniere entrò nella stanza e disse sottovoce qualcosa a quelli che mi stavano interrogando. A questo punto mi dissero che mi avrebbero rilasciato ma che dovevo stare attento perché – e qui le famose parole che dissi anche ai compagni di Crocenera –, avrebbero potuto uccidermi in caserma e buttare il mio corpo da qualche altra parte e simulare un incidente stradale. Quando sono uscito dalla stazione dei carabinieri ero davvero terrorizzato, mi giravo in continuazione per vedere se mi seguivano e ho traversato le strade solamente sulle strisce pedonali e quando c’era anche qualche altro passante con me. Sarà stato puerile da parte mia reagire in quel modo, ma dopo le botte e le minacce di morte, ho capito che avrebbero davvero potuto mettere in atto le loro minacce e senza dover rendere conto a nessuno. Ero già stato fermato e denunciato diverse volte e avevo già provato l’esperienza di interrogatori e del carcere (che certo non era una passeggiata), ma il trattamento subito in quella caserma era la prima volta che lo sperimentavo così come era la prima volta che mi sentivo completamente alla mercé di qualcosa al di fuori della mia volontà e del mio controllo.

Perché non hai detto della conferenza del Cobra? Poteva essere un alibi…

In realtà dico subito, nel primo verbale, che mi sono recato al circolo. Ometto solamente di dire per fare cosa. Più avanti nell’interrogatorio comunque aggiungo che c’era un tale che parlava di “nascita della Terra”, ecc.  Non ritenevo in quel momento di dovermi difendere e quindi non ho pensato che potevo aver bisogno di un alibi. Faccio solo i nomi di Emilio e Amerigo (senza i cognomi) perché ho pensato che solo loro due sarebbero eventualmente potuti essermi utili come “alibi” nel caso di ulteriori domande. D’altronde avevo visto passare Amerigo Mattozzi per i corridoi della stazione dei carabinieri dove mi trovavo e ho pensato che anche lui avrebbe detto che eravamo stati assieme. I carabinieri non sembravano interessati a sapere chi fosse realmente presente alla riunione e tantomeno io ero interessato a dirglielo.

Le bombe a Roma sono scoppiate tra le 17:20 e le 17:30. Quando sei arrivato a piazza SS Apostoli erano le 18:30 quindi a piazza Venezia ci doveva essere stato l’inferno. Perché hai evitato di dire ciò che hai visto?

Non ho evitato di dire nulla! Può sembrare una barzelletta, ma l’unico commento che feci/facemmo con i compagni fu proprio “ammazza che nebbia stasera!”.  Dopo che alla LIDU ci dissero degli attentati, ripassando per piazza Venezia, cercammo di dare uno sguardo in lontananza, ma non vedemmo nulla di anomalo. Non ci avvicinammo perché eravamo più interessati a correre al locale per avvisare gli altri compagni di quello che era successo.

Le tue risposte ai carabinieri coincidono con quelle di Amerigo ed Emilio?

Certo che coincidono! Quello che abbiamo taciuto era il motivo per il quale ci eravamo recati alla LIDU, e anche questo è facilmente comprensibile: noi tre eravamo andati per denunciare le persecuzioni della polizia politica. Il 19 novembre eravamo stati fermati e trattenuti per molte ore in questura per impedirci di partecipare a una manifestazione, ci fermavano e identificavano per strada, eravamo seguiti a piedi e con macchine, ecc., insomma eravamo stanchi di quelle continue angherie e persecuzioni. A causa degli attentati di quel giorno, assieme agli avvocati che lavoravano alla LIDU, ritenemmo che non fosse il momento giusto per sporgere quella denuncia.

A casa tua sono stati sequestrati manganelli di ferro e cartucce vuote. Di che si tratta? visto che poi negli interrogatori cambi più volte versione soprattutto per quanto riguarda i tondini di ferro… Perché hanno dato così tanta importanza ai ferri? Non cercavano l’esplosivo?

Le sbarre di ferro erano degli strumenti ginnici che avevo rubato a scuola (ora non ricordo se al Severi o alle scuole medie. Non volevo quindi farmi incriminare per furto! I bossoli (vuoti) erano della guerra 15-18 di mio nonno o di mio zio (generale di cavalleria) che quindi sono sempre stati in casa e che io avevo messo tra le mie cose. Fecero anche una perizia per vedere se erano stati svuotati della polvere da me, ma comunque nessuno dei miei familiari fu interrogato su questo punto.

Non ho idea perché abbiano dato tanta importanza ai ferri e perché abbiano voluto collocarli all’interno dell’università. Queste erano cose che dicevano loro, tra una sberla e l’altra, per cui alla fine anche io ho “ammesso” che venivano da li. In quel periodo avevo già ricevuto molte minacce da parte dei fascisti per cui avevo pensato bene di essere sempre pronto in caso di aggressioni. Non volevo ripetere l’esperienza dell’aggressione subita a Trastevere il 19 novembre quando venni accerchiato e malmenato!

Il quadernetto con l’elenco delle basi NATO in Italia che ti hanno sequestrato ad aprile, nella perquisizione del 12 dicembre già c’era? Non lo hanno trovato? Il generale Henke sostiene che, a parte qualche inesattezza, rivela veramente degli obiettivi sensibili (il contenuto, dice Henke, costituisce materia di vietata divulgazione). Anche un servizio segreto chiese informazioni su quel materiale. Di che si trattava? Chi l’aveva scritto? Il tuo avvocato tentò di rendere nulla la perquisizione. Fu in quella occasione che minacciarono tua madre? Lo stesso materiale fu ritrovato tempo prima nella casa di Luca Corso, un membro del collettivo anti NATO [della] FGCI di Prato. Venne sottoposto a processo, ma con una sentenza del 22 dicembre 1970 fu prosciolto da ogni accusa per estinzione del reato per amnistia. Quindi anche quell’accusa per te doveva decadere. Restava quella di essere renitente alla leva…

Il quadernetto è sempre stato nel posto dove lo hanno trovato. Probabilmente nella prima perquisizione hanno dato solo un’occhiata superficiale e, forse a causa delle poesiole che avevo scritto da bambino nelle prime pagine, lo avevano trascurato. In casa mia fu ritrovato anche l’originale (il bollettino FGCI di Prato) da cui avevo tratto i nomi delle basi. Inizialmente tentarono addirittura di vedere se fossi stati io a passare le notizie alla FGCI! Mentre Luca Corso a Prato veniva amnistiato, nel mio caso i giudici romani derubricarono sì l’ipotesi di reato dall’iniziale spionaggio al procacciamento di notizie di cui era vietata la divulgazione che comunque prevedeva una pena troppo alta per rientrare nell’amnistia. In altre parole il fatto che avessi scritto i nomi delle basi sul quaderno dimostrava che era mia intenzione divulgarli. Ovvio, no? Dopo molti anni questo reato cadde in prescrizione. Trattandosi di basi NATO intervennero i servizi segreti della marina Americana che chiesero maggiori informazioni su di me e anche sugli anarchici italiani (struttura, numero, ecc.).

Mia madre e soprattutto una mia zia furono insultate e poi minacciate di arresto quando si risentirono degli insulti e risposero, ma questo non avvenne in quell’occasione. Fui anche incriminato due volte (assieme al compagno Failla che era il direttore responsabile di Umanità Nova per aver pubblicato le mie lettere in cui denunciavo nella prima il trattamento subito durante l’interrogatorio e nell’altra sfidavo la magistratura a chiedere la mia estradizione. I processi vennero unificati e fu spostato tutto a Napoli (non ho la minima idea perché fosse finito li). Non ho letto i verbali riguardanti questa faccenda, so solo che ebbi una condanna a 18 mesi per aver diffamato i miei torturatori. Mia madre fu chiamata a testimoniare – così lei mi ha raccontato a distanza di tanti anni – e il giudice istruttore, una donna, le  fece capire che se confermava le accuse contro i poliziotti avrebbero condannato anche lei. Per cui mi trovai da solo contro tutti, la mia parola contro quella di esimi poliziotti.

Qui gli articoli pubblicati da Umanità Nova:

— Umanità Nova, 27 novembre 1971, “L’imputato Enrico Di Cola spiega i motivi della sua latitanza e accusa per la strage l’apparato statale”;
— Umanità Nova, 22 gennaio 1972, “Lo Stato italiano accusato di strage. Enrico Di Cola dalla Svezia sfida la magistratura a chiedere la sua estradizione”.

Nel verbale dell’interrogatorio del 13 dicembre, quello delle 11:10, parli del tuo arresto per rissa aggravata del 19 novembre insieme a Valpreda e Gargamelli per il quale siete trattenuti  in carcere una settimana. Cosa era successo? Fu un arresto pretestuoso?

Cosa successe di preciso non so dire. Certo è che venimmo accerchiati da un gran numero di persone che non avevano la minima intenzione di discutere con noi. Pietro provò a parlare con loro, ma mentre parlavano io fui investito da calci e pugni e svenni. Anche di questo episodio non ho mai letto i verbali e quindi non ricordo cosa dissi. Ricordo solo che gli agenti che ci arrestarono intervennero solo quando tutto era finito e che cercarono di farci confessare altre cose e che noi capimmo che c’era qualcosa di strano. La rissa era “aggravata” solo perché io e Roberto eravamo rimasti contusi. Fummo portati nel commissariato di Trastevere e poi subito – dopo poche ore – direttamente in carcere.

Quando hai visto Pietro Valpreda per l’ultima volta?

Credo fosse il 10 dicembre. Eravamo in macchina vicino via Veneto io, Pietro e Robertino Gargamelli. Parlammo a lungo e se non sbaglio fu in questa occasione che Pietro ci disse che dopo Milano doveva fare un lavoro in Sicilia e che, visto che a Roma non riusciva a trovare lavoro,  sarebbe probabilmente tornato a vivere a Milano.

Nel verbale delle 17:30 è interessante vedere come i carabinieri si interessino di come ti mantieni, chi ti dà i soldi per i continui spostamenti in Italia… Quasi che pensassero che ci fosse qualcuno di “esterno” che finanziasse il gruppo o comunque la vostra attività politica.

Figurati che per risparmiare le 100 lire dei biglietti io andavo spesso a scuola a piedi (da piazza Ragusa a Piazza dei Navigatori) o almeno arrivavo sino a San Giovanni e poi prendevo il bus.

Non credo si trattasse solo di trovare eventuali “finanziatori” ma piuttosto anche della loro mentalità. Essere uno studente medio, avere i capelli lunghi, viaggiare in autostop e vivere di quello che si trovava o raccattava per strada non era una cosa che a quei tempi questa gente riusciva a capire. Anche qui, le parole usate nel verbale (“leggevo gli indirizzi su Umanità Nova’’…) non sono mie parole ma quello che gli investigatori mi hanno domandato e poi inserito nel verbale.

E a questo punto devo chiederti: chi vi ha dato i soldi per affittare i locali di via del Governo Vecchio?

Nulla di misterioso: usammo i soldi dateci per l’intervista a Ciao2001 come caparra e poi ognuno di noi si era impegnato a versare qualcosa in cassa… “a seconda delle proprie possibilità” . Il locale è bene ricordarlo visto che ancora oggi c’è chi specula su questo, fu trovato dal compagno Gigi che aveva visto il cartello mentre girava da quelle parti.

Gigi chi?

Luigi “Gigi” Andreotti. Un altro dei compagni che faceva la spola tra il Bakunin e noi.

Sono poi andati a controllare a scuola, l’ITIS Severi, le tue, le vostre assenze… Praticamente non ci siete mai andati considerando anche le assenze per la reclusione a Regina Coeli e i giorni passati in caserma per gli interrogatori, lo sciopero della fame… Ci sono poi gli interrogatori fatti al preside, a un professore e a un tuo compagno di scuola. Il preside dice che eri sempre in prima fila in ogni manifestazione, ti davi da fare per organizzare scioperi. Lo studente Falcone racconta che tu eri in grado di confezionare una molotov e che ti ha sentito parlare di bombe. Chi è questo Falcone? È ovvio che la vostra attività politica non poteva prescindere dai luoghi scolastici. Quanto riscontro avevano le vostre idee tra i compagni?

Allora, con calma, ricordiamoci in che anno siamo. L’anno precedente avevo fatto lo stesso numero di assenze – molte di più visto che la scheda copre solo i primi mesi – ma mi presentavo sempre ai compiti in classe, alle interrogazioni e alle prove, per cui avendo le sufficienze avevano difficoltà a bocciarmi. Potrebbe aver influito il fatto che ero molto popolare tra i compagni di scuola per le lotte che portavamo avanti e che diversi professori simpatizzavano con noi. Tecnicamente avrebbero potuto bocciarmi per aver superato il numero di assenze consentito, ma visto che avevo le sufficienze nei compiti in classe e il supporto di professori e studenti, non lo fecero.

Falcone era un giovane fascista con cui dubito di aver mai parlato tranne una volta: quando lo feci entrare a scuola – nonostante lo sciopero e il picchettaggio da noi attuato –, assieme ad altri 3-4 suoi amici. Quello che penso è che la polizia abbia in qualche modo provato a costruire qualcosa contro di me e abbia utilizzato questi signori. Gli serviva un secondo attentatore per l’altare della patria e hanno provato a mettermi in mezzo. Sapevano che durante la conferenza ero uscito, con Amerigo Mattozzi per comprare del vino (nessuno avrebbe potuto dire con esattezza quanto tempo ero stato fuori), fecero anche indagini per sapere se ero andato alla riunione con la mia vespa, ma con loro scorno appresero dalla mia famiglia che mi era stata rubata durante la mia permanenza in carcere. Ecco allora la testimonianza di Falcone che dice di avermi visto a piazza Venezia da solo poco dopo l’esplosione delle due bombe all’Altare della Patria. Il terzo “testimone”, cioè il professor Ceri, era un fascista che durante uno sciopero prese in ostaggio un nostro compagno, Enricone – minacciandolo con un’accetta –, e questo davanti alla polizia che presidiava la scuola. Io con gli altri compagni sfondammo il cordone di polizia e dicemmo che se entro 10 minuti il nostro compagno non veniva liberato ci avremmo pensato noi a farlo e che la polizia si assumeva la responsabilità di quello che sarebbe potuto succedere. Credo fossi abbastanza odiato da questi figuri, anche dal preside che sfanculavo regolarmente davanti a tutti e che già durante le occupazioni aveva provveduto a dare i nomi degli occupanti alla polizia. Come anarchici eravamo il gruppo organizzato più forte della scuola. Senza il nostro appoggio nessuno era in grado di fare nulla. Molti dei compagni di scuola entreranno poi a far parte del gruppo 22 Marzo: oltre a me – tanto per citare qualche nome più noto – c’erano Gargameli, Fascetti, Borghese, Enricone, Amerigo, una decina in tutto.

Quando hai fatto perdere le tue tracce? C’è un giorno specifico?

Si, il 16 dicembre notte, dopo aver saputo dell’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli. Quando ho visto il titolo di un giornale di destra della sera con l’arresto di Pietro e la morte di Pinelli mi sono tornate immediatamente nella mente le parole che mi avevano detto i carabinieri prima di rilasciarmi: ti possiamo uccidere qui dentro, far trovare il tuo cadavere da qualche altra parte, ecc. Allora ho capito che quelle minacce potevano davvero essere poste in opera e quindi decisi di dileguarmi in attesa di un eventuale processo.

Cosa hai detto alla tua famiglia?

Assolutamente nulla. Quando sono uscito di casa per andare nei locali del giornale Paese Sera per rilasciare un’intervista su Valpreda e il 22 Marzo non immaginavo che sarebbe stata l’ultima volta che vedevo la mia famiglia (e che avrei dovuto aspettare tre anni per rivederli). Il 12 dicembre, dopo essere tornato a casa e aver visto il telegiornale, diedi a mio fratello il nome di alcuni avvocati (Lombardi e Calvi) dicendo che se succedeva qualcosa dovevano contattarli. Dopo le varie persecuzioni che avevamo subito ero quasi certo che sarebbero passati anche da me. Ero mentalmente preparato al fatto che sarebbero potuti venire a prendermi, anche se certamente non potevo immaginare che invece del solito controllo e interrogatorio la situazione sarebbe stata ben diversa.

Perché non ci sono stati più interrogatori? Perché ti hanno liberato invece di metterti in carcere come i tuoi compagni?

Io, e tutti i compagni interrogati dai carabinieri, siamo stati rilasciati. Perché non so dirtelo. Sappiamo che polizia e carabinieri si spartirono delle liste di nomi delle persone da fermare e probabilmente il mio nome finì nella lista sbagliata. Durante il processo di Catanzaro Luigi Falvella dell’Ufficio politico della questura di Roma disse: “non mi risulta se il Capitano Valentini (dei carabinieri, ndr) mi comunicò che avevano fermato il Di Cola, perché in quei giorni nulla quasi risultava nei suoi confronti, è probabile che non gli abbia detto che ci interessava il suo fermo. Nei giorni successivi, essendosi aggravata la posizione del Di Cola, ne facemmo invano ricerche”. E allora perché i carabinieri mi fermarono? Da chi avevano avuto il mio nome?

Passiamo al rapporto della Questura di Firenze del 10 gennaio 1970. Viene interrogato l’anarchico individualista Luigi Rosati che sostiene di aver conosciuto Pinelli (è stato ospite nella sua casa), Valpreda e di essere stato con te (ti ha riconosciuto in una foto del quotidiano la Nazione), con Pietro e Annelise a Reggio Calabria per assistere al processo Aricò-Casile. Dice anche che Valpreda aveva un notevole ascendente sugli altri. Non solo. Afferma che negli ambienti che lui frequentava Valpreda era ritenuto alquanto capace di azioni violente come quella di Milano. Chi è Luigi Rosati? Lo conosci? È vero che Valpreda aveva questo ascendente su di voi? Le stesse opinioni su Pietro le riferisce anche Sergio Piccolo, interrogato il 2 gennaio che conferma come Rosati appena venuto a conoscenza della strage di Milano abbia subito pensato a Valpreda.

Vero è che Rosati lo incontrammo a Reggio Calabria. Delle cose da lui dette ne risponde lui e il suo amico ovviamente. Sono dell’opinione che gli siano state fatte dire quelle cose contro Pietro. Con loro avevamo solo rapporti di conoscenza per esserci incontrati un paio di volte in poco tempo, ma nulla più, non vedo quindi come avrebbe potuto conoscere il carattere di Valpreda e addirittura il suo ascendente su di noi! Può darsi che oggi io tenda a sminuire, ma tutto questo ascendente di Pietro su di noi io non lo ricordo. A meno che pensare le stesse cose e farle assieme non sia frutto di un lavaggio del cervello. Non ricordo una sola volta, una sola discussione, in cui Pietro abbia cercato di imporre il suo punto di vista. Discussioni si, anche accese se vuoi, ma mai imposizioni.

Probabilmente anche qui ci troviamo di fronte a un ennesimo tentativo di costruirci un cappotto addosso. Non a caso è la questura di Firenze quella che seguirà la falsa pista del presunto furto di una macchina che Pietro e Claps avrebbero utilizzato per il trasporto degli esplosivi.

Voi dopo gli attentati di Roma e Milano avete pensato subito ai fascisti? O a qualcun altro?

Di nuovo posso parlare solo al singolare. Abbiamo avuto pochissime ore per discutere assieme di queste cose. Tra quelli fermati, quelli rilasciati e quelli “allontanatisi” per precauzione, non eravamo mai più di 3-4 a parlare assieme. Comunque sapevamo che sarebbe dovuto succedere qualcosa di grosso in quei giorni da parte dei fascisti e ambienti reazionari (la voce era quella di un tentativo di golpe). Va da se che pensavamo che servizi e fascisti fossero fratelli gemelli. I poliziotti erano per lo più di destra e i fascisti fraternizzavano ben volentieri con loro. Era spesso difficile capire dove iniziasse il fascista e dove finisse il poliziotto! La loro impunità voleva pur dire qualcosa.

Nel rapporto della Questura di Firenze ci sono anche le testimonianze di alcuni addetti alla stazione di servizio dell’Autostrada del Sole nei pressi di Firenze. Uno di questi dice di aver visto Valpreda che si è fermato con la sua 500 in uno dei giorni tra il 7 e il 14 gennaio. Riconosce anche Claps che si è fermato qualche giorno dopo la strage con una macchina straniera. Di te non c’è traccia.

Ti stanno cercando e il 17 gennaio la Questura di Vercelli manda un telegramma in cui avverte il ministero degli interni e la Criminalpol che tu sei stato a Vercelli e che poi ti sei spostato in treno a Casale Monferrato. Il 10 novembre un certo “Enrico” dice che sei nascosto a Milano e che Amedeo Bertolo e Umberto Del Grande ti stanno cercando i documenti falsi per andare in Gran Bretagna.

Mi racconti gli spostamenti di quei mesi? Chi ti ha veramente aiutato? Come vivevi?  Dove sei stato?

L’episodio della Questura di Firenze (Valpreda-Claps) è legato a un tentativo fallito di provare che avevano rubato una macchina per trasportare dell’esplosivo. Per questo io non ci sono tra i sospetti. Questo è uno dei diversi “temi” (come il caso Lemke o “vetrini”, ecc.) che andrebbero studiati a parte.

Tutti i passaggi che le veline mi attribuiscono sono totalmente inventati. Come è noto ho passato quasi un anno in Calabria e il resto a Roma e dintorni. L’“Enrico” in questione era Enrico Rovelli , un anarchico che fin dai primi anni ’60 era al soldo dell’Ufficio Affari riservati con lo pseudonimo di Anna Bolena e i cui referenti erano a Milano la squadra 54 e a Roma il vice capo degli Affari Riservati Russomanno. Contemporaneamente Rovelli forniva i suoi servigi anche a Calabresi e all’ufficio politico della questura di Milano.

 Nelle veline in cui Rovelli sostiene che ero a Milano mente.  Amedeo e Umberto della Croce Nera Anarchica furono da me contattati per la prima volta oltre un anno dopo. Sono stato aiutato inizialmente da alcuni compagni del movimento studentesco che conoscevo da anni poi ho vissuto assieme a studenti fuori-sede, professori, artigiani, edili ma tutti questi mi conoscevano con altro nome e sotto altre storie. Ho evitato per oltre un anno di avere rapporti con anarchici. Sia perché era ovvio che era nel mio ambiente che venivo cercato sia perché avevo delle diffidenze verso i compagni della FAI a causa di quello che avevano  scritto a caldo su di noi. Le mie coperture erano del tipo che ero uno studente in depressione, oppure che avevo paura che mi cercassero per degli scontri di piazza a cui avevo partecipato, ecc., ecc. Ogni volta che conoscevo qualcuno che poteva aiutarmi sparivo da dove ero stato fino a quel momento senza alcun preavviso. Cambiavo spesso anche per evitare di essere localizzato. Per sopravvivere, in cambio dell’ospitalità ho lavorato come precettore, come babysitter, ecc. Avevo solo vestiti che i compagni dove vivevo pensavano di buttare (quindi di tutte le taglie e misure), un compagno mi aveva tagliato i capelli corti e inizialmente li avevo tinti di nero. Unica spesa – fatta dai compagni – fu di comprare un paio di occhiali molto grandi e con montatura scura per cambiare il più possibile il mio viso. In due anni gli unici soldi che ho visto sono stati un paio di centomila lire che mio fratello mi aveva inviato tramite una serie di compagni. Il mio rapporto con il mondo esterno e i compagni veniva mantenuto soprattutto da Amerigo Mattozzi. Era l’unico di cui mi fidassi ciecamente e che ho seguitato a incontrare durante la mia latitanza.

Facciamo un passo indietro. Dai rapporti fatti dal di dentro durante il Congresso di Carrara (31 agosto – 3 settembre 1969) è evidente che eravate attenzionati. Soprattutto Valpreda, ma anche il circolo Bakunin dove vengono registrate tutti i contatti con Cohn Bendit. Tu secondo il rapporto eri tra i contestatori di Failla insieme a Valpreda e a Bagnoli. Poi, finito il congresso, siete andati tutti insieme a Empoli al convegno dei Gia (Gruppi di iniziativa Anarchica). Mi puoi raccontare quei giorni?

Vorrei ricordare che Cohn Bendit si recò a Carrara nel ’68 mentre io, Pietro ed Emilio lo facciamo nel ’69. Si tratta di due episodi separati. Valpreda partecipò al Congresso di Carrara del 1968 assieme alla delegazione dei compagni milanesi. Nel ’68 Pietro non si era ancora spostato a Roma e quindi i contatti tra il Bakunin e Cohn-Bendit sono legati ai compagni della FAGI romana.

Noi ci recammo a Carrara per un convegno FAGI e il nostro primo impatto non fu affatto felice. Ci trovammo in un salone dove vi erano una presidenza e degli oratori. Noi contestammo la staticità dell’assemblea e soprattutto chiedemmo che i locali della Federazione venissero tenuti aperti per noi che venivamo da fuori ed eravamo senza soldi. La situazione la risolvemmo occupando i locali e dormendo al loro interno. La mattina successiva riorganizzammo i locali disponendo le sedie in circolo ed eliminando il podio oratori. Ritenevamo che anche visivamente fosse importante rimarcare che eravamo tutti uguali. Sinceramente non ricordo contestazioni a Failla a meno che non fossero legate al rifiuto iniziale di farci dormire nel teatro degli animosi. Mi sembra scontato dire che attuare un atto del genere non sarebbe stato possibile se non fosse stato appoggiato dalla stragrande maggioranza dei compagni della FAGI e che anche molti compagni della FAI approvavano la nostra contestazione. All’epoca diversi di noi si sentivamo parte della FAGI anche se contestavano le posizioni dei compagni più anziani. Come è noto nel ’69 la FAGI minacciò la fuoriuscita dalla FAI se qualcosa nei loro rapporti non cambiava e se non gli veniva dato più spazio (e senza censure!) su Umanità Nova.

Il viaggio a Empoli era stato programmato per due ragioni: prima di tutto perché alcuni di noi si sentivano politicamente più vicini ai GIA (io ad esempio) e in secondo luogo perché Pietro voleva nuovamente parlare con Pinelli per chiarire la sua posizione, cosa che facemmo. Io ero presente alla conversazione tra Pinelli e Valpreda, mentre Emilio Bagnoli era poco distante a parlare con altri compagni.

Che posizione doveva chiarire Valpreda con Pinelli? E cosa si sono detti ?

Durante un interrogatorio in carcere a Paolo Braschi, comparivano alcune frasi – attribuite a Valpreda – circa la responsabilità di alcuni compagni in azioni dimostrative. Chiaramente Pinelli, in quanto responsabile della Crocenera, ne venne subito a conoscenza e sospettò Pietro di “parlare troppo” con la polizia. Noi sapevamo che la fonte di tali dichiarazioni non era Valpreda ma un giovane compagno di Milano, Aniello D’Errico, a cui erano state estorte quelle dichiarazioni. La nostra non era una supposizione, perché fu lo stesso D’Errico a raccontarcelo piangendo. Riferimmo queste cose a Pino Pinelli chiedendogli di sentire lui stesso Aniello per avere una conferma della cosa. Vorrei ricordare che già a ottobre, quando dopo lo sciopero della fame a Roma mi recai a Milano con Gargamelli, Claps e Valpreda, vi era già stata una prima chiarificazione su queste voci. Per tagliare la testa al toro Pietro, approfittando della presenza al digiuno del nostro compagno Camiolo dell’avvocato di Paolo Braschi, gli chiese di prendere lui stesso in mano la sua difesa. L’avvocato gli disse che lui non poteva ma che un avvocato del suo studio lo avrebbe fatto. Quindi da ottobre i verbali di Pietro erano in possesso anche dell’avvocato di Braschi e tutta questa faccenda – su cosa veramente Valpreda avesse detto o non detto agli sbirri – sarebbe già dovuta essersi risolta. Perché poi a dicembre Pinelli seguitasse a dubitare di Pietro e scrivesse addirittura le famose lettere alla FAI e ai GIA è per me inspiegabile. D’altra parte, come mi ha raccontato Enrico Maltini, solo pochissimi giorni dopo la morte di Pinelli tutto era già stato chiarito e Valpreda totalmente “riabilitato”.

Gli inquirenti che ti stavano cercando hanno chiesto informazioni anche a Reggio Calabria per trovare prove a conferma della loro idea che furono i calabresi a fornire gli esplosivi. Non trovarono nulla. A parte che tu e Valpreda eravate stati a Reggio Calabria per il processo di Aricò e Casile. Mi puoi raccontare lo “strano” viaggio che faceste da Roma per la Calabria e gli “incontri sospetti” che faceste lungo la strada?

La “pista” calabrese era già stata indicata più volte in varie veline. A Nocera Inferiore i carabinieri ci fermarono mentre facevamo autostop. Eravamo su una macchina che fece una serie di strane manovre finché non attirò l’attenzione di una pattuglia di carabinieri che ci identificò e perquisì – grazie al famigerato art. 41 – alla ricerca di armi ed esplosivi. Fummo poi costretti, seguiti dalla pattuglia ad andare alla stazione per prendere il treno e mettendo tutti i soldi assieme riuscimmo a comprare il biglietto per fare un paio di fermate. Quando uscimmo dalla stazione ci siamo accorti che la macchina che ci aveva dato il passaggio a Nocera, provocando la nostra perquisizione, era parcheggiata a fari spenti dietro a un cartellone pubblicitario. La parte finale del nostro viaggio per Reggio Calabria la facemmo separandoci in due gruppi: io e la Muky e Pietro con Bagnoli. Il mattino successivo ci recammo davanti al tribunale per aspettare con gli altri compagni calabresi e di qualche altra località la sentenza contro Casile, Aricò (e qualche altro compagno). Durante questa nostra manifestazione di sostegno mi si avvicinò un poliziotto dell’ufficio politico di Reggio che indicò me, Pietro e Bagnoli come i tre venuti da Roma. Il giorno dopo partecipiamo con i compagni di Reggio a una manifestazione di edili e qui – stando a un loro documento inviato al G. I. Cudillo – furono i carabinieri a immortalarci con varie foto che spediscono poi a Roma al giudice. Dire che eravamo  “attenzionati” mi sembra un eufemismo: ci seguivano passo a passo e in stretta cooperazione tra polizia e carabinieri.

Sul Giornale d’Italia, noto giornale di destra, il 16 giugno 1970 esce una tua intervista. Tu sostieni che è falsa. La questura di Roma ritiene che tu l’abbia rilasciata a Cesare Tocci nei locali del gruppo teatrale Dioniso. Tra le risposte “inventate” c’è anche quella che parla di Andrea Politi… perché secondo te è uscita questa cosa?

La cosa è in qualche modo divertente. Il giornalista era il ragazzo (di allora) della sorella di Gargamelli. Forse voleva dare una mano, non ti so dire. Come ho detto io non ho mai rilasciato alcuna intervista durante la mia latitanza. E certamente non mi sarei sognato di darla a un giornale di destra. Però, anche da queste cose apparentemente così strane e lontane si avverte una regia. Si sostiene che tale intervista sia avvenuta nei locali a Roma del Dioniso anche se loro avevano abbandonato quei locali già da un paio di anni. Il Dioniso, forse non casualmente, era il gruppo in cui lavorava Gino Liverani (arrestato perché si rifiutò di collaborare a una campagna antianarchica contro di noi) e il Dioniso è il gruppo che contestò il Papa nel suo viaggio in Sardegna (diversi fermi). La polizia cercò di coinvolgere nella campagna repressiva contro gli anarchici anche il Dioniso. La cosa incredibile è che la questura romana, dopo indagini accurate come loro erano sono soliti fare, concluse che la presunta intervista (mai avvenuta) era stata fatta proprio nei locali del Dioniso!

La questione Politi “Andrea” esce comunque ad aprile se non sbaglio e il primo a tirarla fuori sarà un nostro compagno, Emilio Borghese, che si era accorto che ogni volta che faceva quel nome, questo spariva dai verbali. L’articolo in se non è pessimo, però è un falso.

Dall’interrogatorio di Marco Ligini emerge che tu sospettavi già di Merlino. È così?

Sì. Marco Ligini, un compagno della controinformazione, lo incontrai dopo un abboccamento che fece con alcuni compagni che mi ospitavano nei primissimi giorni dopo la strage e quando ero già ricercato seppur non ufficialmente. Marco si tutela dicendo di aver avuto confidenze su di me, ma in realtà lo incontrai personalmente. I compagni che mi ospitavano lo portarono a casa e io, da dietro la porta chiusa e attraverso il buco della serratura seguii il suo racconto e una volta che giudicai che ci si poteva fidare, aprii la porta e parlai con lui direttamente.

Ligini testimonia, facendo il mio nome  – cosa che ho scoperto solo recentemente –, che io andai un paio di volte (con un altro compagno) a casa di Merlino per pianificare eventuali azioni dimostrative contro la sede FIAT di Roma. Dato che la seconda volta ci trovammo di fronte a un estraneo e la situazione era molto strana, io e l’altro compagno decidemmo di non frequentare più Merlino (a quel punto considerato da noi un provocatore). Si tratta della testimonianza numero 5 del libro Strage di Stato, sebbene nel testo pubblicato ci siano diverse cose che non corrispondono a quanto da me detto. A novembre, quando io, Pietro Valpreda e Gargamelli usciamo dal carcere di Regina Coeli (arrestati con l’accusa di rissa aggravata il 19 novembre sera) i compagni ci dicono che durante la nostra detenzione vi era stato un attentato alla caserma dei carabinieri a piazza del Popolo e che un nostro compagno, Angelo Fascetti, era stato interrogato dalla questura come sospetto. Angelo ci raccontò che gli erano state contestate frasi precise pronunciate all’interno del circolo. A quel punto divenne evidente che, oltre a Merlino, c’era un’altra spia al nostro interno, come anche scrisse alla fine di novembre Pietro al suo avvocato di Milano. Con alcuni compagni della mia scuola, che conoscevo da qualche anno e di cui mi fidavo ciecamente, ci riunimmo e cominciammo a vagliare le varie ipotesi sull’identità della possibile spia. Arrivammo a una rosa finale di tre nomi: Merlino, il poliziotto “Andrea Politi” (Salvatore Ippolito) e un terzo compagno. Non parlammo con nessuno di questa nostra indagine per evitare un clima di sospetto generalizzato e soprattutto per non accusare delle persone innocenti. Purtroppo non avemmo il tempo di terminare il nostro lavoro. E forse – col senno del poi – sbagliammo a non raccontare agli altri compagni del circolo dei nostri sospetti.

Il ruolo di Merlino. Che idea ti sei fatto del suo coinvolgimento nel processo per le bombe di Roma? Perché non hanno fatto in modo che ne venisse fuori?

Non sono sicuro di capire bene la tua domanda. Ma te ne faccio io una mia: un alibi dato da fascisti a un loro camerata è credibile? Merlino poteva, aveva il tempo di piazzare le bombe assieme ai suoi amici?

Detto questo vorrei farti osservare che Merlino a un certo momento (probabilmente dopo aver passato tutte le informazioni utili su di noi – e aver inutilmente cercato di provocare qualche fatto, azione concreta per intrappolarci –, sparisce, trova delle scuse per non frequentare più il nostro gruppo. Dopo circa un mese alcuni di noi decisero di andare a casa sua a vedere come stava (prima aveva giustificato l’assenza dicendo che doveva prepararsi a un esame e poi che era malato) e lo trovarono in perfetta salute. Per questo motivo fu “costretto” a frequentarci nuovamente – sia pur saltuariamente – ed è per questa ragione, secondo me, che da teste a carico contro di noi, diventerà invece anche lui un imputato. Insomma finito il lavoro sporco di informatore su di noi si era sganciato ma poi la nostro visita lo aveva obbligato a tornare a frequentarci. Il piano iniziale presumibilmente era quello di allontanarsi in modo di poter essere un teste contro di noi (avevo capito cosa volevano fare per cui….), la nostra visita lo riporta invece nel gruppo e a quel punto neanche lui ha più scampo e viene arrestato.

Perché il 25 dicembre 1971 hai dato il benservito all’avvocato Bucciante?

Non ricordo chi mi suggerì di nominare Bucciante quale avvocato difensore. Bucciante era un principe del foro, uomo di destra, ed ex ufficiale dei carabinieri. L’ho incontrato due o tre volte in tutto (una all’interno dell’ospedale militare del Celio, una in Sicilia e una nella sua lussuosissima villa) e fin dal primo incontro capii che non era l’avvocato che volevo. Lui voleva che accusassi i miei compagni per potermela cavare. Siccome non ho mai aspirato al lavoro di giuda, e di infame che accusa innocenti per essere assolto, decisi di revocargli il mandato. Ora faccio un passo indietro. Dopo le rivelazioni sulla spia della polizia – causata da una lettera inviata da Emilio Borghese a Amerigo Mattozzi – ci fu una nuova raffica di perquisizioni alla ricerca di lettere e contatti tra di noi e furono incriminati altri tre compagni per associazione a delinquere: Giovanni Ferraro, Claudio Gallo e Angelo Fascetti. In istruttoria però vennero prosciolti. A quel punto non vi erano più avvocati della sinistra extraparlamentare nel nostro collegio di difesa. Aldo Rossi mi chiese quindi di nominare io questi avvocati, per bilanciare quelli del PCI che aveva Valpreda, cosa che io feci immediatamente nominando Di Giovanni e Spazzali. Dopo di me fu il turno di Bagnoli, che nel frattempo era uscito dal carcere, di nominarne altri.

Dalla Svezia mandi una lettera aperta in cui spieghi le ragioni della latitanza, chiedi l’apertura immediata del vostro processo e sfidi la magistratura italiana a chiedere la tua estradizione. Anche Amnesty e un gruppo di intellettuali in Italia si muovono in questa direzione. Quale era l’obiettivo?

Andando in Svezia avevo scelto di dare battaglia per ottenere subito un processo che in Italia non si voleva fare. Era un accordo che avevo preso con Crocenera e con la FAI. Volevamo provocare l’Italia a chiedere la mia estradizione e quindi fare in una Corte estera quello che non si riusciva a fare in Italia. Per estradarmi l’Italia doveva inviare alla Svezia una richiesta che spiegasse i motivi dei miei mandati di cattura e quindi pensavamo di fare li il controprocesso per dimostrare la nostra innocenza e smerdare la polizia italiana a livello europeo. Nessuno di noi poteva prevedere che ci saremmo trovati improvvisamente in un vuoto legislativo. Dopo la pubblicazione della mia lettera di sfida alle autorità italiane a chiedere la mia estradizione, successe che iniziò il primo processo a Roma che venne però subito fermato e inviato a Milano per “competenza territoriale”. Milano a sua volta declinò l’invito e spedì tutto a Catanzaro. Agli atti ho trovato una richiesta di estradizione di Occorsio (che non aveva però più giurisdizione) che invitava i giudici di Milano a procedere loro con quella richiesta. Come sappiamo il prefetto di Milano si rifiutò di tenere il processo a Milano per questioni di “ordine pubblico” e tutto venne spedito a Catanzaro. Quindi immagino che tale richiesta sia sparita nei meandri e nei mesi di attesa per trovare un tribunale competente. Catanzaro cercò di scantonare dicendo che non era attrezzato per un tale processo, ma la Cassazione lo obbligò a farlo.

Quando sei tornato in Italia?

Sono tornato per la prima volta, clandestinamente, alla vigilia della sentenza intorno al 1980, dove a una manifestazione nazionale per il 12 dicembre a Roma casualmente incontrai Valpreda, Gargamelli e altri del gruppo. Ma poi tornai a Stoccolma per terminare il mio lavoro e cercare di chiudere tutte le cose lasciate in sospeso. Sono tornato nei primi anni ’80, sempre clandestinamente perché ero ancora ricercato ma dopo qualche tempo sono nuovamente andato a vivere all’estero.

Con la prima sentenza caddero i primi due mandati di cattura, quello per associazione a delinquere, e quello per “spionaggio” ma nel frattempo ne avevo collezionato un altro: quello per renitenza alla leva militare.

Quale è stata l’accoglienza da parte dei compagni?

Frequentai per qualche tempo i compagni del Malatesta e con alcuni di loro andai a un convegno a Carrara. Fu una bella rimpatriata. Poi mi dissero che la polizia stava facendo controlli e mi invitarono a non frequentare più il gruppo per non essere compromessi (ero renitente alla leva) che poi mi avrebbero contattato loro quando la situazione si fosse calmata. Sono ancora in attesa di un loro segno di vita. Dei compagni del mio gruppo avevo quasi totalmente perso ogni traccia. Ho impiegato anni per ritrovarli. Non ho frequentato nessuno per molti anni essendo tornato a vivere all’estero. Avevo sempre pendente sulla testa il reato di renitenza alla leva che si è estinto soltanto al compimento del 55esimo anno e che mi impediva di avere una vita normale tra i miei compagni. Vivo ancora all’estero.

[Tratto da https://stragedistato.wordpress.com/2019/12/21/domande-personali-per-enrico-di-cola-richiesta-precisazione-su-punti-intervista-verbali-veline-e-atti-giudiziari/]