Un uomo libero in 41 bis

UN UOMO LIBERO IN 41 BIS

Il 20 ottobre l’anarchico, prigioniero, Alfredo Cospito ha dato inizio ad uno sciopero della fame a oltranza, fino alla morte, per l’abolizione del regime speciale detentivo del 41 bis e il “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo, in quanto, entrambi, espressione della vendetta dello Stato attraverso la tortura istituita per legge.

Tortura che lo Stato, proprio con il caso di Alfredo, torna a riutilizzare anche contro gli oppositori politici rivoluzionari… oltre che ai danni di quella massa di detenuti – ad oggi circa 750 in 41 bis – ritenuti dalla giustizia appartenenti a un’organizzazione di stampo mafioso, mostrificati dunque di fronte all’opinione pubblica e quindi destinabili, senza che nessuno dica niente, a qualsiasi tipo di trattamento.
Oggi, questo compagno ci sta dicendo qualcosa.
La sua è una lotta di denuncia, attraverso la quale ci sbatte in faccia che per lui è meglio rischiare la morte mettendosi ancora una volta in gioco, che vivere interminabili anni in queste condizioni di stillicidio tese all’annientamento.
È l’attacco all’ipocrisia di uno Stato che pretende di definirsi democratico.
È lo smascheramento della manovra che lo Stato stesso sta operando attraverso il suo caso perché esso costituisca un precedente nella storia.

In solidarietà alla lotta di Alfredo, altri due anarchici prigionieri, Juan Sorroche, detenuto nella Sezione Alta Sicurezza 2 del carcere di Terni, e Ivan Alocco, detenuto nel carcere di Villepinte in Francia, hanno iniziato uno sciopero della fame rispettivamente dal 25 e dal 27 ottobre.

Alfredo, detenuto dal 2012 nelle sezioni di Alta Sicurezza 2, affronta oggi la decisione del Tribunale di Cassazione di riqualificare uno dei reati per il quale era stato condannato insieme ad Anna Beniamino nel processo “Scripta Manent”, da “strage comune” in “strage politica” con l’unico evidente intento di aumentarne gli anni di pena (per questo reato è previsto esclusivamente l’ergastolo, anche ostativo).
Poco prima di questo appuntamento giudiziario, quasi ad influenzarne l’esito, Alfredo viene tradotto in regime di 41 bis nel carcere di Bancali a Sassari, trasferimento motivato dalla condanna per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” (270 bis), di cui è ritenuto il capo ispiratore.

In primis rispetto a questo elemento, da anarchici, che per principio rifiutiamo gerarchie, capi e strutture verticistiche, riconosciamo un pretestuoso paradosso interpretativo. Così come nel rovesciamento di senso nella formulazione dell’accusa di strage nei confronti dei compagni e delle compagne. Storicamente, in Italia, le stragi deliberate le ha praticate lo Stato, coprendole con il segreto… di Stato, ed ora accusa tramite l’utilizzo sofisticato dell’apparato giuridico e legislativo Alfredo e Anna di stragi di fatto mai avvenute.

Affilate le armi – un pacchetto di leggi antiterrorismo largamente inclusive, l’ostatività di determinati reati, strutture di isolamento totale per seppellire vive le persone – lo Stato consuma la sua vendetta.

Marta Cartabia, Ministra della Giustizia nel Governo tecnico guidato dal banchiere Draghi, con il trasferimento a inizio maggio 2022 di Alfredo in regime di 41 bis, ha inteso perseguire la finalità di impedirgli di continuare a esternare il suo pensiero anarchico, di tappargli la bocca e rinchiuderlo per il resto della vita in 41 bis.
Questo perché Alfredo non ha mai smesso, in nessuna condizione si trovasse, di mettere lo Stato ed il capitalismo di fronte alle loro responsabilità. Attraverso i suoi contributi per iniziative pubbliche, giornali e pubblicazioni di libri che gli sono costate da detenuto altri procedimenti per “associazione sovversiva” e “istigazione a delinquere”, ha continuato a contribuire con il suo pensiero al dibattito internazionale anarchico, con determinazione e coerenza, restando parte di quella che da lui viene spesso definita la sua comunità, cioè il movimento anarchico.

Il 41 bis si prefigge esattamente questo scopo, recidere i contatti e la comunicazione con il mondo esterno.
La posta è censurata, è negata la possibilità di ricevere libri – e stampa di ogni genere – da fuori, di studiare, di approfondire un qualsiasi tipo di argomento di interesse del detenuto che non passi sotto il vaglio dell’amministrazione penitenziaria, che sceglie cosa passa e cosa no.
Un regime che nega l’istruzione, oltre che l’evasione mentale tramite una lettura scelta, ma anche la socialità. Infatti, senza considerare l’isolamento imposto 23 ore su 24, è sempre l’amministrazione che decide con chi il detenuto può fare la socialità, con chi gli è concesso di scambiarsi il buongiorno: sono composti da un massimo di 4 detenuti i cosiddetti “gruppi di socialità”, e all’infuori di ogni singolo gruppo è vietato rivolgere la parola a chiunque altro non vi appartenga. Pena una denuncia, poi un processo che se arriva a condanna può decretare l’ulteriore isolamento diurno, che vuol dire isolamento totale.
È vietato tenere in cella finanche le fotografie dei propri cari, così che non sopravviva neanche il ricordo del mondo esterno dal quale ti hanno strappato.
È questa vita? No, è annichilimento scientificamente studiato.

Il gesto politico di questo compagno anarchico è un esempio di resistenza e dignità di rivoluzionario; è allo stesso tempo la scelta carica di umanità di un uomo che nonostante la prigionia rimane un uomo libero, che costretto alle estreme condizioni di isolamento e deprivazione del 41 bis, decide di reagire e non lasciarsi seppellire vivo.

Il 41 bis, il “carcere duro”, fu introdotto con la c.d. riforma Gozzini del 1986, seguito poi dall’ergastolo ostativo che fa riferimento alla disciplina di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Elaborata nei primi anni ‘90 nel contesto di quella “legislazione d’emergenza” della lotta alla mafia, venne poi estesa anche per reati di “terrorismo”, nei confronti di prigionieri politici radicali e rivoluzionari che hanno “osato” sfidare lo Stato e il capitalismo con la lotta armata, connotati da una peculiare “pericolosità sociale” (non si viene puniti per ciò che si fa, ma per ciò che si è). Di fronte alla generica accusa di essere pericoloso per la sicurezza e la tranquillità pubblica non c’è difesa possibile se non l’abiura, la presa di distanza, la dissociazione.
Già dagli anni ‘70, in cui cominciava ad affacciarsi la crisi del sistema capitalistico e dello svilupparsi di un forte e radicale movimento di classe e rivoluzionario, si è coagulata una strategia unitaria delle forze repressive anche riguardo la politica penitenziaria comune in tutti i paesi europei e non solo. Nel 1992 all’art. 41 bis, già introdotto nel 1986, fu aggiunto un secondo comma che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell’ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parte delle organizzazioni mafiose. Nel 2002 veniva estesa l’applicabilità del regime del 41 bis, ai detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione”. Infine nel 2009 l’art. 41 bis, secondo comma è stato definitivamente istituzionalizzato entrando a far parte dell’ordinamento penitenziario.

Dobbiamo renderci consapevoli che la svolta autoritaria in corso oggi, si sta accompagnando ad una sempre più stretta politica repressiva del “nemico interno”.
Lo Stato tratterà col pugno di ferro sempre più ampie fasce di oppositori e sfruttati, utilizzando questa minaccia repressiva contro i movimenti di lotta attuali.

Oggi  in Italia i prigionieri politici e le altre persone accusate di appartenere alla criminalità organizzata detenuti in 41 bis sono più di 700. Quello di Alfredo è certamente un gesto anche di vicinanza, stima e solidarietà agli altri prigionieri politici che si trovano nella stesso regime detentivo e che con coerenza non si sono mai piegati. Anche a loro va tutta la nostra solidarietà.

Dal 2005, tre rivoluzionari prigionieri, militanti delle BR-PCC, Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, sono continuativamente sottoposti all’isolamento del “carcere duro”, mentre la compagna Diana Blefari è stata “suicidata” dopo anni trascorsi in questo regime detentivo. Del periodo di lotte degli anni ‘70-‘80 rimangono attualmente in carcere undici compagni e cinque compagne, con carcerazioni effettive che variano da 35 anni a 40 anni.
Lo Stato continua a mantenere in carcere i prigionieri rivoluzionari dopo oltre 40 anni di detenzione: non certo per quello che hanno fatto in passato o per la loro pericolosità attuale, ma per la storia che rappresentano e come monito e deterrente per chi continua a lottare oggi.

Per lo Stato il 41 bis è permanente e pone infami condizioni per uscirne: ovvero collaborare con lo Stato stesso. Coloro che si rifiutano di collaborare con la giustizia non possono accedere ad eventuali benefici o alla liberazione condizionale (ex art. 58-ter): in pratica ci si deve piegare alla morale dello Stato e vendere altri compagni, consegnare altri uomini e donne alla repressione, e quindi barattare il miglioramento delle proprie condizioni con la vita di qualcun’ altro/a.

Questo significa che, per quanto faccia la morale, lo Stato italiano non ha alcuna etica, visto che questa tortura psico-fisica, questo ricatto violento, sembra simile al becero collaborazionismo organizzato durante l’occupazione nazi-fascista in Italia, quando per qualche lira si svendevano con la delazione gli ebrei che si nascondevano dalle deportazioni o i partigiani che praticavano la guerriglia. La democrazia italiana si comporta allo stesso modo del fascismo e del nazismo di ottant’anni fa: vendere qualcuno per salvarsi la pelle o per avere premi e sconti.
D’altra parte il reato di strage politica (art. 285), venne introdotto dal Codice Rocco durante il fascismo e prevedeva la pena di morte (ora ergastolo ostativo), leggi contro-insurrezionali pensate per evitare la guerra civile.

Con le politiche repressive e di controllo sociale lo Stato cerca di mantenere il monopolio della violenza, infierendo brutalmente contro chi si impegna nella lotta per la libertà e la rivoluzione sociale. Sembra proprio che l’azione vendicativa dello Stato sia mirata e del tutto strumentale.
Ma non è univoco lo schieramento ideologico e politico riguardo la repressione e il carcere duro. Enorme responsabilità ce l’hanno governi e politici di sinistra e centro-sinistra come Oliviero Diliberto che nel febbraio del 1999, da Ministro di Grazia e Giustizia, è stato protagonista dell’istituzione ufficiale del GOM, il corpo speciale della polizia penitenziaria, e di un “Ufficio per la garanzia penale”, con compiti “informativi” riguardo ai detenuti, affidato al generale Ragosa allora dirigente del Sisde e poi coordinatore dell’UGAP, Ufficio per la Garanzia Penitenziaria del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, una struttura di intelligence creata dallo stesso Ministro Diliberto nel febbraio 1999. Lo stesso Ragosa fu fino al 1996 responsabile dei reparti speciali degli agenti di custodia protagonisti di pestaggi di detenuti, torture, come accadde a Secondigliano nel 1993, e a Pianosa, nel 1992; “già a capo delle cosiddette squadrette interne dell’amministrazione penitenziaria che, negli anni ottanta “gestivano” le situazioni di crisi durante le rivolte nelle carceri, con le loro incursioni.
Pratiche che si sono protratte nella normalità per decenni, fino ai quindici morti per reprimere le rivolte in diverse carceri di questo paese nel marzo 2020.
Queste strategie controrivoluzionarie, che gli Stati mettono in campo per continuare a tenere in vita il sistema di sfruttamento e di dominio, raggiungono il più alto livello di brutalità e barbarie proprio all’interno delle carceri. Le misure repressive varate dal ‘77 all’‘82 vengono riutilizzate e calibrate per affrontare in modo autoritario le nuove emergenze e per arginare il dissenso ancor più oggi che la crisi energetica, economica e la guerra, ci portano verso possibili scenari di conflitto sociale interno.
Si sa che l’“eccezione” diventa la regola.
La svolta autoritaria risultato della crisi del capitalismo genera una dura repressione verso gli anarchici con operazioni repressive e condanne pesantissime; repressione che si allarga quindi alle classi sociali che più di tutti subiscono la crisi sociale, energetica ed ambientale, gli sfruttati.
Lo Stato preventivamente reprime il dissenso verso le istituzioni e i padroni; il suo fine è criminalizzare e screditare le pratiche rivoluzionarie per arginare il possibile consenso verso le idee anarchiche in una fase di opposizione al capitalismo e alle sue politiche energetiche che potrebbero aprire spiragli di critica radicale alle follie nucleari e tecnologiche.
Ecco che oggi più che mai risulta attuale la lotta del nostro compagno Alfredo contro il nucleare.
Nel sistema odierno prevale la giustizia punitiva, la giustizia sociale viene invece eclissata dal sempre più crescente divario delle disuguaglianze. Si reclamano “pene severe e certezza della pena”, mentre i detenuti nei penitenziari si ritrovano ammassati, dimenticati, suicidati, assassinati e in condizioni di degrado fisico e mentale al limite della sopravvivenza.

La retorica e le sentenze degli organi giudiziari borghesi sulla costituzionalità o incostituzionalità danno semplicemente sfogo ad un’ipocrisia in merito ai diritti umani tipica degli Stati occidentali imperialisti neocoloniali e capitalisti, i quali con i diritti umani hanno poco a che fare: quando la lotta di classe mette in discussione i poteri costituiti anche lo stato democratico svela il suo vero volto.

È necessario costruire e promuovere una grossa mobilitazione a livello internazionale. Questa mobilitazione deve avere un carattere politico: veicolare le idee e le azioni rivoluzionarie dei/delle compagni/e prigionieri/e e sviluppare la coscienza della solidarietà.

La lotta di Alfredo è anche la nostra!
Solidarietà con Alfredo, Juan e Ivan in sciopero della fame.
Solidarietà in lotta ai prigionieri e alle prigioniere in 41 bis!

Alcune individualità anarchiche
28 ottobre 2022

PDF: Un uomo libero in 41 bis.

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