Un borghese liberaldemocratico e quelle impronte dei bambini nella sala colloqui del 41 bis

UN BORGHESE LIBERALDEMOCRATICO
E QUELLE IMPRONTE DEI BAMBINI NELLA SALA COLLOQUI DEL 41 BIS

Nel corso dell’udienza preliminare del procedimento Sibilla tenutasi lo scorso 15 gennaio a Perugia, a un certo punto il procuratore capo Raffaele Cantone si è definito un «borghese liberaldemocratico» (p. 34 del verbale di udienza con fonoregistrazione). Forse invidioso del vivace orgoglio di classe espresso dagli interventi di molti imputati, anche il savio repubblicano ha voluto concedersi, a sua volta, fosse pure per un attimo fuggente, un momento di orgoglio di classe. La sua classe. Un fatto raro, di questi tempi, tempi cupi e bugiardi laddove, alla spietata guerra sociale combattuta dai padroni contro gli sfruttati, si registra una certa fatica di questi ultimi nel riconoscersi come oppressi e una reticenza degli oppressori nel rivendicarsi tali.
Ed è un bel successo, se vogliamo chiamarlo così, che quello che doveva essere un processo contro libri e giornali, cioè un processo alle idee e alle parole, sia naufragato in una giornata durante la quale si sono potute dire tante verità.
L’esito ormai è noto da diverse settimane (è stata pronunciata una sentenza di non luogo a procedere, il processo quindi non potrà nemmeno cominciare, fra le altre cose facendo venire meno uno dei tasselli fondamentali per i quali Alfredo Cospito è stato rinchiuso in 41 bis) così come sono state diffuse molto celermente le nostre dichiarazioni, fra tutte quella davvero impressionante e commovente di Alfredo. Non si è invece parlato ancora del comportamento del rappresentante della pubblica accusa in questo processo abortito. Cercherò quindi di colmare questo elemento di cronaca, che credo potrà interessare a qualcuno, infine proporrò delle considerazioni più generali sulla difesa politica nei processi contro la stampa anarchica.

La Cantonata

Il capo della procura di Perugia si presenta all’udienza preliminare del 10 ottobre chiedendo e ottenendo un rinvio. Il pretesto lo trova in un difetto di notifica nei confronti di un compagno. La cosa è in effetti surreale perché in un processo normale sono gli avvocati degli imputati a cercare di prendere tempo e sono invece gli accusatori a tentare di impedire che questi tentativi vadano in porto. A renderla ancora più surreale c’è il fatto che il compagno in questione, che non poteva essere presente perché è un emigrante e vive e lavora in un altro Paese, manda una lettera nella quale afferma di essere a conoscenza del procedimento e chiede che la sua posizione non venga utilizzata come pretesto per non iniziare il processo (d’altronde ha lo stesso avvocato di molti altri). Nonostante tutto questo Cantone si intestardisce, tira in ballo niente meno che i diritti della difesa (bontà sua) e si permette persino di insinuare che noi avremmo potuto in qualche modo danneggiare il nostro coimputato se l’udienza avesse avuto inizio e avessimo cominciato a leggere i nostri interventi. Quando il compagno si presenta all’udienza successiva del 15 gennaio, rilascia infine una dichiarazione spontanea molto fiera, nella quale fra le altre cose in incipit sbeffeggia pure questo episodio.
Un comportamento, il nostro, dettato dal fatto che poter comunicare con Alfredo, ascoltare le sue parole e fargli ascoltare le nostre, strapparlo per qualche ora dall’isolamento del 41 bis, è stato percepito collettivamente come un qualcosa che ha un valore politico, umano e affettivo incomparabile rispetto alle normali pratiche di cabotaggio avvocatesco. Ma da che cosa è dettato invece il comportamento di Cantone? Di cosa ha paura?
Quando infine il 15 gennaio è costretto a sostenere l’atto d’accusa succede qualcosa di ancor più inconsueto. Normalmente in queste occasioni il PM si limita a chiedere il rinvio a giudizio rimandando all’esito del dibattimento le conclusioni. Cantone invece si dilunga in una vasta requisitoria nella quale si dissocia ripetutamente dall’operato del ROS dei Carabinieri e della sua stessa procura. Definisce la propria una «rivisitazione critica dell’intero materiale» (p. 20). Parole veramente sorprendenti, normalmente la rivisitazione critica è quella cosa spregevole che viene chiesta al reo per poter ottenere sconti di pena e una gradazione delle misure.

«Ovviamente ho sentito con attenzione le dichiarazioni spontanee di tutti gli imputati, ho grande rispetto per tutto quello che dicono, ma vorrei dire con chiarezza che questo non è affatto un processo alle idee dell’anarchia. Non è un processo né di tipo ideologico e né tantomeno è un processo sulle intenzioni. È un processo che riguarda specifiche ipotesi di reato. Sono reati di opinione. È vero, sono reati di opinione. Culturalmente i reati di opinione in gran parte li eliminerei, nella mia cultura – diciamo – li ridurrei al massimo. Ma non è compito del Pubblico Ministero sostituirsi al Legislatore. Compito del Pubblico Ministero è applicare le leggi dello Stato» (p. 21).

Così inizia la sua requisitoria. Gli stessi concetti li ribadisce in conclusione:

«Il 414 andrebbe abrogato. Che è un’opzione anche corretta, tutto sommato che io sponsorizzerei. Io non ho paura delle idee. Ma non spetta a noi stabilire quello che è punibile o non punibile. Non spetta a noi modificare le indicazioni del legislatore con le nostre posizioni culturali. Questa è la loro posizione culturale. Noi siamo servi sì, ma della indagine» (p. 34).

Nel mezzo, un lungo elenco di dissociazioni: «l’idea dei cattivi maestri e un’idea sbagliatissima» (p. 22), «devo dire che la stessa parola vilipendio è poco consona ad un Governo democratico» dice a un certo punto (p. 23) e che «purtroppo nelle contestazioni ci sono vari errori» (p. 24). C’è un momento in cui sembra persino disorientato, «non so manco che cosa è l’operazione Sibilla, mi baso sull’idea che è prevista dal nostro Legislatore che alle indagini non vanno dati nomi» (p. 25) polemizzando con il ROS e quell’abitudine farsesca di dare nomi in codice ai loro colpi militari neanche fossimo in un war movie di Hollywood.
Quindi comincia a elencare una lunga serie di capi d’accusa sui quali chiede l’assoluzione e la cosa qui si fa davvero sorprendente perché è stato proprio lui a portarci in quell’aula firmando la richiesta di rinvio a giudizio. Su 19 capi d’accusa, lo stesso PM si ritrova a chiedere il processo solo per tre di questi: la pubblicazione dei primi cinque numeri di “Vetriolo” e due scritti di Alfredo in occasione di due momenti assembleari (chiedendo il rinvio a giudizio anche per i presunti redattori dei siti internet di controinformazione roundrobin e malacoda rei di averli pubblicati). Per tutti gli altri si chiede il non luogo a procedere o tutt’al più l’assorbimento.
Cantone quindi cerca di salvare il salvabile, ottenendo se possibile un processo contro Cospito e contro i compagni che hanno continuato a pubblicare i suoi scritti dal carcere. Per ottenere almeno questo risultato minimo, fondamentale peraltro per quelle forze dello Stato che hanno rinchiuso in 41 bis il nostro compagno, Cantone non si risparmia nel tentare una disperata operazione di maquillage, rendendosi conto che un obbiettivo così importante rischierebbe di finire sminuito in un processo che lo vedesse diluito insieme a dozzine di episodi come le scritte sui muri o i volantini del Circolaccio Anarchico di Spoleto che invitavano allo sciopero generale.
Certo il nostro bravo borghese liberaldemocratico, uomo di spiccata e paracula sensibilità, fosse per lui non chiederebbe nemmeno il processo per istigazione a delinquere, anzi lui l’articolo 414 del codice penale lo vorrebbe proprio abolire, però purtroppo non sono i magistrati a scrivere le leggi, loro le devono per forza applicare. Mannaggia.
E pur di ottenere questo doloroso ma doveroso risultato, il Nostro non si vergogna di abbandonare i vecchi compagni di viaggio. I precedenti titolari delle indagini e i carabinieri del ROS di Perugia in questa ricostruzione fanno la figura degli incompetenti. Sorge solo un piccolo problema, giacché Cantone la propria faccia al fianco degli incompetenti ce l’ha già messa.
Basta dare uno sguardo alla conferenza stampa che si è tenuta a Perugia la mattina dell’11 novembre 2021 mentre erano in corso le perquisizioni e gli arresti dell’operazione Sibilla e che è possibile ritrovare a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=RZWVXx8-W4w. Dove Cantone rivendica l’operazione repressiva, ne esalta la gravità e si presenta a fianco di Manuela Comodi, Alberto Nobili e Pasquale Angelosanto. Così come si siede a fianco di Manuela Comodi nel corso del secondo riesame, il 14 marzo 2023, in un momento peraltro molto drammatico con lo sciopero della fame di Alfredo Cospito che si protraeva da quasi cinque mesi. Insomma, la rivisitazione critica operata dal nostro vegliardo liberale è quantomeno tardiva.
Bisogna in effetti dire che negli anni trascorsi la sfortuna si è piuttosto accanita contro gli inquirenti, con il titolare dell’inchiesta Manuela Comodi che nel frattempo è stata condannata a un anno di reclusione per accesso abusivo agli atti nel sistema informatico della procura e trasferita al tribunale civile di Milano. Una piccola parentesi di cronaca rosa: la Comodi cercava informazioni circa un’indagine contro il suo compagno di vita, un certo Rana che fa il giudice al tribunale fallimentare e che avrebbe aggiustato delle sentenze in cambio di regali per lui e per l’amata Manuela. Insomma l’indefessa procuratrice – quella che ha firmato tante e tante inchieste anti-anarchiche sin dal 2007 – che si mette a smanettare nei fascicoli digitali per scoprire come vanno le indagini contro il suo innamorato e si fa pure beccare. Peraltro bisogna riconoscere che la giustizia italiana sa essere molto crudele, e proprio alla Comodi che se aveva commesso reato ebbene lo aveva fatto sì ma spinta dall’amore, viene spedita con contrappasso degno dell’Inferno dantesco a fare i divorzi a Milano.
Al di là della miseria umana in cui tramonta la carriera di Manuela Comodi, con lei il ROS perde una storica pedina nell’apparato giudiziario italiano. Uno di quei PM disposto a firmare qualsiasi carta straccia il raggruppamento speciale dei carabinieri le ponesse davanti. Sostanzialmente quando c’è la Comodi in aula è il ROS in realtà che sta parlando.
L’indagine Sibilla perde quindi il burattino che l’ha orchestrata e a questo punto, con un atto che nel perverso mondo dei tribunali può anche essere considerato coraggioso, il procuratore capo avoca a sé l’indagine. Nel farlo però evidentemente mette in moto una sorta di parziale ritirata strategica, mettendo in chiaro che lui non sarà il portacarte delle forze speciali dei carabinieri ma opererà un filtro critico. E chi ha avuto il dispiacere di conoscerla, sa bene che questa abilità non compariva fra le poche doti di Manuela Comodi.

«Questa è la lebbra che chiamate civiltà»

Ci sono tante chiavi di lettura in questa vicenda. Si potrebbe supporre che la dissociazione di Cantone, nemmeno troppo velata se non dalle buone maniere, si inserisca nella guerra per bande che oggi attraversa i poteri dello Stato in Italia. Il non voler prendere ordini dalle forze di polizia potrebbe quindi apparire come una sorta di manifestazione di ribellione verso una riforma della giustizia che vorrebbe sottomettere la magistratura inquirente all’esecutivo.
Ci sono poi delle possibili ragioni personali, che hanno a che fare con la reputazione e il cursus honorum del personaggio; Cantone è quella che si usa definire una «riserva della repubblica», il cui nome compare nei retroscena dei giornali ogni volta che c’è una crisi di governo come possibile candidato alla guida di un esecutivo tecnico (alla fine poi scelgono sempre un economista, come Monti o Draghi, perché oggi l’economia è decisamente preminente rispetto alla vecchia aristocrazia di toga).
Un personaggio con certe ambizioni repubblicane probabilmente si vergognava un poco di macchiare il proprio curriculum con un processo contro la libertà di espressione, un processo i cui protagonisti avrebbero lasciato impresso il proprio nome nel libro dell’infamia dove compaiono coloro che hanno avuto un ruolo in una vicenda così sporca come quella dell’applicazione del 41 bis ad Alfredo Cospito.
Certo questa vergogna non è un fatto di pudicizia etica, che questi signori non sanno nemmeno cosa sia. Essa è piuttosto il sintomo di una infiammazione che ha colpito il corpo dello Stato, una frattura aperta in particolare dallo sciopero della fame del 2022-23 e dalla mobilitazione solidale che lo ha accompagnato. Quella mobilitazione è riuscita per la prima volta a smascherare la narrazione nazional-popolare sulla natura eroica, quasi angelica, della lobby dell’antimafia. Mai come allora il dogma del 41 bis è stato messo in discussione. Soprattutto si sono registrate delle spaccature non indifferenti all’interno degli organismi statali, con la ritirata disordinata proprio di quelli che Alfredo in 41 bis ce lo avevano mandato (basti ricordare su tutti il parere della DNAA favorevole alle declassificazione del compagno, ma anche quello dello stesso ROS dei carabinieri) e la resistenza assurda opposta del nuovo governo di destra, che nel frattempo era subentrato, la cui ottusità ha finito per incendiare la prateria.
Tra gli sbandati di questa ritirata compare senz’altro anche il tribunale e la procura di Perugia, i quali hanno avuto un ruolo così importante nel determinare il trasferimento di Alfredo Cospito in 41 bis proprio a causa dell’operazione Sibilla (che ora il capo di quella procura ci venga a dire non sapere nemmeno cosa sia Sibilla supera la soglia del ridicolo, risate alla cantonese), e che lo scorso 15 gennaio ha finito per caracollare in maniera tanto indignitosa.
Di contro a tanta pavidità e ipocrisia, il comportamento degli imputati. Il 15 gennaio gli abbiamo mostrato in maniera gagliarda come avremmo affrontato un processo del genere. Come occasione per dialogare con Alfredo, per parlargli delle azioni dirette che succedono fuori, per raccogliere i suoi comunicati e fare finalmente uscire le sue parole da quella tomba per vivi nella quale è recluso, come la definisce spesso il compagno.
Proprio le sue parole, in particolare, hanno avuto una potenza comunicativa impressionante. Mi sono commosso quando Alfredo ha parlato delle impronte dei bambini che vede nei vetri della sala colloqui. Quelle impronte sono le tracce dell’ultimo residuo di umanità che sopravvive solo come riflesso nel girone più profondo dell’inferno dell’istituzione totale.
Applicando la tortura della deprivazione sensoriale, l’internato in 41 bis viene privato di ogni contatto umano e gli stessi colloqui avvengono attraverso un vetro divisorio, con le comunicazioni alienate e in un certo senso al citofono. Quelle impronte sono allora il tentativo di rievocare, sotto forma di spettro, un’umanità morta. Al momento di salutarsi, di dover lasciare i loro papà e le loro mamme, i bambini appongono la mano sul vetro e così fa anche il genitore, simulando un contatto impossibile, illegale. Di qui quelle manine che restano stampate sui vetri.
Se fosse andato avanti il processo Sibilla, Alfredo queste e altre mostruosità di cui gli tocca essere testimone le avrebbe raccontate ogni settimana. Così come avrebbe continuato a esporre la sua convinzione che il 41 bis fosse nato per seppellire i mafiosi da parte degli «stessi politici che prima li hanno usati per il lavoro sporco e poi seppelliti qui dentro per evitare recriminazioni su favori fatti e mai restituiti». Così come avrebbe continuato a denunciare che in 41 bis vige «una sorta di persecuzione etnica», un sistema di lager quasi esclusivamente dedicato ai «figli impresentabili di un meridione popolato da cittadini di serie b». Avvertendo però che un domani l’eccezione del 41 bis sarebbe potuta diventare la norma:

«La sua reale pericolosità è qualcosa di ben più oscuro, in potenza una formidabile scorciatoia repressiva in caso di conflittualità sociale. Quale modo migliore per silenziare i movimenti e le opposizioni radicali di un regime emergenziale già attivo e testato. Uno stato di eccezione in cui molti diritti sono sospesi, in cui regna una censura assoluta già sperimentata in decenni di pratica sul campo. Chi saranno i primi a vivere sulla propria pelle questo regime speciale? I compagni e le compagne che si battono per la Palestina? Gli anarchici e le anarchiche che imperterriti continuano a parlare di rivoluzione? I comunisti e le comuniste mai arresi? Quattro di loro sono decenni che resistono con fierezza in questo regime nell’isolamento più assoluto, senza mai piegarsi. Se la guerra imperialista dell’Occidente tracimerà per reazione dai confini dell’Ucraina irrompendo nelle nostre case, se i conflitti sociali supereranno il limite sostenibile di un meccanismo traballante, o anche solo se la transizione morbida e graduale in regime non sarà praticabile, il 41 bis grazie proprio alla sua patina di legalità sarà lo strumento repressivo ideale per un’anestetizzazione sociale forzata, una sorta di olio di ricino per rimettere in riga i recalcitranti, un golpe graduale e a norma di legge.»

Che si parlasse di tutto questo forse, a loro, ai torturatori, può aver fatto paura. D’altronde non a caso i boia – e i ROS – si presentano incappucciati.

Sui processi contro la stampa anarchica

Quando dico che hanno avuto paura non voglio certo perorare un’idea riduzionista per cui ci sia stata una sorta di ragion di Stato dietro a questa assoluzione. Peraltro, al contrario, come già osservato una delle ipotesi in campo è che questa decisione si inserisca all’interno della guerra in corso fra magistratura e politica.
Le cose sono più semplici, e più umane. La verità è che questi bravi borghesi liberaldemocratici hanno lo stomaco delicato. Certe storie preferiscono non ascoltarle, che poi gli si rovina il sonno alla notte. E dove non bastasse l’etica, di cui non sono in effetti grandi frequentatori, ci pensa l’amor proprio, la propria rispettabilità liberale a portarli a miti consigli.
È una storia che si è ripetuta continuamente in merito al 41 bis ad Alfredo Cospito. Tutti coloro che hanno avuto la libertà di dare una propria opinione hanno espresso in larga parte pareri favorevoli alla declassificazione del compagno: la DNAA, il ROS, il procuratore della Corte di Cassazione. Solo quei pochi soggetti che a un certo punto hanno avuto la possibilità reale di ordinare un provvedimento definivo – e sono pochissimi: fondamentalmente il ministro, il tribunale di sorveglianza di Roma e la Cassazione – su di loro si è concentrata tutta la potenza persuasiva di una qualche forza oscura dello Stato che su quel terreno non voleva proprio cedere. Tutti gli altri, quando hanno potuto, hanno cercato di evitare di iscriversi nel libro dell’infamia.
E allora sulla scorta di questa esperienza si possono fare alcune considerazioni generali su come affrontare un processo contro la stampa anarchica. Non si tratta ovviamente né di verità dimostrabili, né tantomeno sibilline per fare della facile ironia, né si tratta di una qualche proposta di vademecum. È semplicemente una riflessione che propongo ai compagni a partire dal modo in cui mi sono vissuto io questa esperienza, nella speranza che possa essere utile a qualcuno per ricacciare indietro i tentativi di ammutolirci da parte dello Stato.
Credo che ci siano vari modi di affrontare un processo in generale da parte di imputati anarchici. Si può rifiutare la difesa tecnica, si possono rivendicare gli addebiti, si può legittimamente tacere, ci si può difendere perché effettivamente estranei alle accuse così come, serenamente o spudoratamente, si può mentire. Quando però si parla di processi contro la stampa anarchica le cose vanno in parte diversamente, nel senso che c’è una cosa che proprio non si può fare: mentire. Non che sia eticamente grave, ma è semplicemente ridicolo, imbarazzante. Come ci si può presentare in un’aula nella quale si viene trascinati unicamente per le proprie idee e rinnegarle? Viceversa, trasformare il processo in un’occasione per essere noi quelli che mettono sotto accusa lo Stato, nonché in un momento di propaganda, può essere non solo divertente, ma persino efficace.
Non si tratta certo di valutare una sentenza della magistratura in termini di «vittoria» o «sconfitta». È efficace dal punto di vista della lotta, delle contraddizioni che si possono aprire nelle file nemiche. Nel caso dell’abortito processo Sibilla si era creata, per esempio, una situazione che gli americani chiamerebbero di win-win. Personalmente sarei stato persino più felice se fossi stato rinviato a giudizio perché quella poteva essere un’occasione interessante non solo per mettere sotto accusa il 41 bis, cosa che si può e si deve fare innanzitutto nelle strade e nelle pratiche conflittuali, ma soprattutto per fare «evadere» Alfredo dall’isolamento.
Un concetto simile forse lo ha voluto esprimere lo stesso compagno quando all’inizio del suo intervento ha detto: «Detto questo mi tocca ringraziarvi: dopo un anno di silenzio, grazie al vostro imbarazzante e anacronistico procedimento penale, mi è concesso esprimere il mio pensiero pubblicamente. Anche se da remoto, anche se per il breve tempo di un battito d’ali, oggi posso strapparmi il bavaglio, la mordacchia medievale» del 41 bis.
E non è sfuggito pare nemmeno a un paio di avvocati. A un certo punto uno ha detto: «ovviamente se dovessimo andare avanti i nostri assistiti – lei l’ha visto – affrontano con serenità, con la classica dignità che hanno, il processo senza problemi» (p. 39). E un’altra: «Quindi io credo che si può rinviare a giudizio? Forse è anche interesse degli anarchici, leggeranno altri proclami, Alfredo Cospito potrà nuovamente partecipare fuori dalla tomba del 41 bis ad altri procedimenti» (p. 45).
Lungi dunque dal valutare in termini di «vittoria» o «sconfitta» una qualsivoglia sentenza della magistratura, è proprio nell’indifferenza nei confronti dell’esito, nell’approccio combattivo e gioioso, nella volontà di essere noi quelli che mettono lo Stato sotto accusa che possono maturare dei mutamenti nei rapporti di forza (marginalmente, all’interno di tali mutamenti, paradossalmente giungere a degli esiti positivi finanche sull’odioso terreno del giudizio).
Naturalmente un processo nel quale compariva un anarchico in 41 bis queste contraddizioni erano ancora più forti e lo Stato si sarebbe presentato in una condizione di maggiore debolezza. Dopo aver messo in pericolo la sua vita scuotendo le coscienze e smascherando le ipocrisie del sistema concentrazionario del 41 bis, la stessa presenza del compagno, fosse pure nella forma spettrale, fantasmatica, della videoconferenza, le sue dichiarazioni, la sua dignità, avrebbero rappresentato una contraddizione vivente per tutti coloro che Alfredo vorrebbero vederlo murato vivo.
Una prova di impotenza lo Stato ha voluto darla anche fuori da quell’aula. A seguito della prima udienza, quella prevista il 10 ottobre e poi rinviata, come abbiamo visto, per i capricci del procuratore capo, la questura di Perugia ha notificato una decina di procedimenti volti all’emissione del foglio di via. Il tutto per una manifestazione ahimè completamente pacifica. Un provvedimento che solo superficialmente esprime arroganza, ma che in fondo denota invece soltanto debolezza. La vicenda Cospito dà così fastidio che anche alla presenza comunicativa di una dozzina di solidali deve essere tappata la bocca. Che nell’occasione successiva, il 15 gennaio, si sia perseverato nel non autorizzare la manifestazione, che i numeri dei partecipanti siano raddoppiati e che tra questi fossero presenti molti di quei compagni che il questore avrebbe voluto esiliare fuori dal capoluogo è stato secondo me a suo modo significativo.
Naturalmente questo processo «godeva» – e in effetti è amaro l’uso di questa espressione – delle ferite aperte dalla lotta contro il 41bis. Si pensi alla vicenda di Andrea Delmastro: il sottosegretario alla giustizia recentemente condannato per i pasticci combinati nel tentativo gaglioffo di infangare Alfredo. Anche in questo caso il miglior commento politico possibile lo possiamo ritrovare nelle parole di Alfredo del 15 gennaio: «La pericolosità del 41 bis non si può ridurre a un gerarca da operetta che imbastisce una patetica trappola a un’opposizione altrettanto da operetta (indicativo in tal senso il mio trasferimento eterodiretto due anni fa da una sezione all’altra in vista dell’arrivo di politicanti romani per imbastire un teatrino con comparse più utili alla bisogna). La sua reale pericolosità è qualcosa di ben più oscuro, in potenza una formidabile scorciatoia repressiva in caso di conflittualità sociale».
Dicevamo che su questo processo sono gravati in effetti anche le contraddizioni generatesi a seguito della mobilitazione in solidarietà con Alfredo. Ma queste considerazioni secondo me possono valere in generale per tutti i procedimenti contro la stampa anarchica.
Con che faccia lo Stato chiede sacrifici ai lavoratori per combattere la proprie guerre contro perfidi regimi autoritari nemici dell’Occidente, e poi ci processa per dei reati di opinione? Questi sono argomenti che si possono presentare sempre, agitando le ragioni del nostro disfattismo a scopo di propaganda, da un lato, e giocando sulla contraddizione che in effetti c’è tra le politiche di guerra degli Stati (tra le quali compaiono ovviamente la operazioni repressive di guerra interna contro i rivoluzionari) e la paccottiglia ideologica con la quale quelle stesse guerre vengono giustificate.
Certo per evitare ogni tipo di ambiguità, è importante che le dichiarazioni siano radicali e non facciano alcun passo indietro sui contenuti. Ribadire quindi la necessità della violenza rivoluzionaria e non solo il mondo a venire che questa promettere di schiudere.
Diceva Malatesta che «i processi sono sempre stati uno dei nostri migliori mezzi di propaganda. Ed il banco degli imputati è sempre stato la più efficace e, lasciatemelo dire, la più gloriosa delle tribune» (dichiarazione del 29 luglio 1921 alla Corte d’Assise di Milano, in op. vol. 7, p. 336). Se questo vale in generale, forse nei processi contro la nostra stampa vale ancora di più. Perché in essi si mette in moto quel meccanismo tipico della censura: l’azione stessa della censura rende l’opera censurata più interessante, più popolare, evocando curiosità e attenzione su di essa.
Che dopo millenni di storia umana questa evidenza talmente elementare non sia ancora stata acquisita, dimostra che i censori non sono semplicemente delle persone spregevoli, sono fondamentalmente anche degli stupidi.

emmeffe

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