Comunicato di Stecco riguardo all’imposizione della videoconferenza e dichiarazione che avrebbe voluto leggere il 19 gennaio al tribunale di Trieste
Ieri, 17 gennaio, mi è stata notificata dalla matricola del carcere di Sanremo la decisione del DAP del 16 gennaio, di impormi la videoconferenza presso il Tribunale di Trieste per i due processi che avrei dovuto avere in presenza i giorni 19 gennaio e 1 febbraio. Il giudice che ha avvallato questa decisione è la dottoressa Valentina Guercini.
Il motivo è semplice, e per noi anarchici ormai noto, cioè di essere classificato come un anarchico insurrezionalista, e quindi per ragioni di sicurezza è stata revocata la precedente traduzione disposta dalla stessa giudice.
Non ripeterò i motivi per cui sono totalmente contro questo tipo di imposizione, in tanti e tante compagne nel tempo ci si è espressi a riguardo, sia sulla impossibilità di difendersi decentemente e guardare in faccia i propri inquisitori, ma soprattutto – cosa più importante – è trasformare questi momenti repressivi in momenti di lotta, di far trasudare anche nelle loro aule lo spirito che ci pulsa dentro, di opposizione, di conflitto, di dignità politica ed umana, di presa di parola.
E visto che proprio per queste occasioni, avevo preparato un testo di solidarietà internazionalista, spendo qualche parola su questa situazione di censura e depoliticizzazione del processo. Cosa che non riguarda me, ma tutti i compagni e compagne, tutti i detenuti e detenute in generale.
Sappiamo bene cosa sta avvenendo nel mondo della giurisprudenza e della giustizia borghese con l’introduzione della tecnologia, conosciamo i responsabili materiali che permettono tutto questo, la cui videoconferenza è per certi versi già antiquata, il futuro è molto più raccapricciante con l’introduzione dell’intelligenza artificiale. Basta leggere giornali e riviste del settore per farsi un’idea del dibattito in corso a riguardo.
Visto che per questi processi non ho ancora potuto vedere di persona la mia avvocatessa di fiducia di Trieste, sarò costretto a partecipare alla videoconferenza per interloquire con lei per alcune questioni tecniche. Fatto questo dichiarerò quello che penso e accuserò la giudice di questa sua decisione impostale dal DAP, in poche semplici parole, e me ne andrò.
Per essere chiaro questo avverrà in questi due processi al Tribunale di Trieste.
Il 10 gennaio invece mi era stata imposta la videoconferenza dal giudice Marco Tamburino di Trento, con delle scuse più sottili. Vedremo se in futuro mi farà presenziare al processo per l’operazione “Senza nome” come da me richiesto tramite avvocato.
18/01/2024
Carcere di Sanremo
Luca Dolce detto Stecco
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Di seguito il testo di solidarietà con il prigioniero palestinese Georges Ibrahim Abdallah
A causa del confine, che nella percezione dei più del nostro Paese può essere solo di tipo nazionale e linguistico, sono tenuta a dichiarare e dimostrare la mia identità. Chi sono, a chi appartengo, perché scrivo in sloveno o parlo in tedesco. In queste affermazioni c’è un cono di guerra in cui si aggirano fantasmi che rispondono al nome di fedeltà e tradimento, possesso e territorio, mio e tuo. Oltrepassare il confine qui non è un gesto naturale, è un atto politico.
Così scrive l’austriaca Maja Haderlap nel suo romanzo L’angelo dell’oblio, nel descrivere il vissuto della minoranza slovena nella Carinzia austriaca durante la Seconda Guerra Mondiale. Storie di genti che convissero e condivisero fatiche, culture, sfruttamento e violenza.. Da troppo tempo qualcuno mette su carta una linea tratteggiata, che nella realtà si concretizza in uomini e donne armati e in uniforme, tecnologie del controllo, documenti, filo spinato, burocrazia, giudici, propaganda e scribacchini privi di cuore.
Passare quella linea politica era un atto politico, come oggi.
La mia famiglia, di origine istriane da parte di padre e di madre, nel dopoguerra ha dovuto varcare quei confini decisi dai trattati tra lo Stato italiano e quello jugoslavo con la mediazione degli alleati vincitori. Confini i cui cippi, nei decenni, son stati spostati un po’ più in qua, un po’ più in là, a scapito di chi lì ci viveva. Han lasciato tutto, le loro case, le loro reti da pescatori, le loro colline con i peri e i perseghi dove da piccoli andavano a mangiare i loro frutti, che con nostalgia ancora ricordano.
Confini, varchi, zona A, zona B, campi profughi, fame, povertà, pregiudizi, violenza.
Eliseé Reclus descriveva il suo concetto di esule in modo diametralmente opposto a quello che oggi i politici, gli storici, i conservatori nazionalisti vogliono fare: assimilare come concetto patriottico.
L’esule per lui è quella persona che a causa di forze esterne alla propria volontà, è costretto a lasciare la propria terra natia. Ma il ricordo, la memoria, non sono legati allo straccio che si appende nelle caserme o negli uffici pubblici. Bensì ai propri ricordi, ai profumi e frutti della propria terra, ai giochi d’infanzia, al paesaggio che fin da piccoli ci circonda, ai piccoli e grandi avvenimenti della vita, anche negativi. A chi si vuole bene e che t’ha cresciuto, alle storie che t’han raccontato. Oggi questa parola suona solo come ricordo di divisioni, di odio, di prepotenza, di memoria selezionata, perché essa è intrecciata con una realtà che nasconde ed offusca la vera fonte del dramma dell’esodo istriano-dalmata. Cioè che chi pagò ancora una volta le scelte sconsiderate e nefaste del regime fascista che difendeva i privilegi della borghesia, della vecchia nobiltà e del clero, erano solo e sempre gli ultimi, le escluse, indipendentemente da che parte del conflitto si trovavano.
Dinamiche molto simili successero dopo, in modi differenti, durante il regime titino con i suoi campi come Goli Otok, o nella nuova Repubblica Democratica Italiana.
La Giornata del Ricordo, del 10 febbraio, che si celebrerà tra pochi giorni, sarà ancora il momento della retorica nazionalista, dove le cause che portarono a certi avvenimenti, vengono ancora negate e revisionate per necessità di potere.
Ci si è abituati bene in questi anni ed a queste latitudini con un poco di pace e di abbondanza nel far finta che tutto va per il meglio. Ci si dimentica della recente guerra fratricida jugoslava, dove le bombe della NATO cadevano sulle genti nostre sorelle, con cui da tempo si convive e ci si mescola parole, usanze, vicissitudini.
Si è più vicini di quanto non si creda.
Oggi si dà per scontato che quel confine orientale sia veramente “aperto”, che esso sia un ricordo del passato.
Esso non è aperto per chi scappa da altre violenze, guerre, fame, o semplicemente parte per cambiare vita. Poco importa.
Si danno per scontate cose che non lo sono, come l’aver il documento giusto, la fedina penale immacolata, il colore della pelle adatto. Le guardie alle garitte ti lasciano passare solo se hai certi requisiti, ma oggi il confine, non è lì dove c’è concretamente la frontiera, ma ovunque.
Poi succede un avvenimento che si percepisce come lontano, la TV mostra luoghi che sembrano di un’altra epoca, ma ormai ci si è assuefatti a vedere immagini di città bombardate, a gente che estrae i propri morti dalle macerie, alle file di profughi.
Il 7 ottobre 2023 la Resistenza Palestinese attacca Israele. La macchina dello Stato si mette in moto. I telegiornali giustificano la chiusura di quello che la gente non avrebbe più immaginato, cioè i confini di Schengen. Si spargono parole d’odio ed usurate: terrorismo, sicurezza, chiusure, allarme.
Chissà che qualche europeo adagiato nel benessere si risvegli dal proprio sonno e comprenda che queste barriere hanno degli scopi precisi per il mantenimento della divisione dell’umanità in nazioni e classi. Esse sono aperte solo quando chi governa ne ha la necessità e gli vien concesso. Ancora una volta la macchina patriottica macina e schiaccia, innalza il mito della “difesa” della Nazione.
Ogni giorno le immagini della guerra contro le persone palestinesi ci vien sbattuta in faccia con tutta la sua violenza, con il conteggio dei morti, con la retorica cinica e guerrafondaia di chi ha il potere. Dove anche l’Italia con le sue navi da guerra, con le sue basi NATO-USA in Sicilia a Sigonella, con le sue fabbriche di armi e nei suoi laboratori ed università continua inesorabilmente a creare marchingegni di morte tramite la mano d’opera e l’ingegno di chi ha ormai la propria coscienza coperta da un elmetto. L’Italia continua dalla fine della seconda guerra mondiale a supportare il suo blocco imperialista, mentre ancora una volta un’intera comunità viene massacrata, affamata, perseguitata senza fine.
Spendo povere parole da questa cella, in questo carcere dove il confine italo-francese si fa sentire. Dove molte persone sono rimaste impigliate nei fili del controllo della frontiera. Dove la gente muore nella Roja, per i proiettili della gendarmérie, o nei freddi sentieri di montagna. Mentre qualche mese fa il ministro dell’interno Piantedosi proclamava l’apertura di nuovi lager, e nelle radio i discorsi dei politici e dei giornalisti erano perfettamente in sintonia con la vecchia propaganda nazista e fascista. Non vi han fatto rabbrividire le decisioni di utilizzare delle tecniche antropometriche per capire se una persona è maggiorenne o no?
Un giorno all’aria un uomo afghano mi ha chiesto come stava il mio cuore? Lui che non ha nessuno, che non ha niente, si è preoccupato per me, in un giorno in cui i miei pensieri volavano verso qualche mio affetto che non c’è più. Mi ha parlato di chi a Trieste in piazza Libertà, anni fa, gli ha dato un po’ di cibo, un qualcosa con cui scaldarsi. Ha dovuto per anni camminare fino a qui, superare le frontiere e sbirri vari, sentirne il peso degli stivali. Lui che nonostante tutto canta del cielo della sua terra, che è anche il mio, il nostro stesso cielo stellato. Basta così poco a volte per sentirsi fraterni pensavo, mentre ascoltavo la sua nenia.
Scrivo questi pensieri perché al Tribunale di Trieste il 19 gennaio avrò un’udienza per un processo.
Nello stesso luogo i giudici strafanici della storia (nel dialetto triestino strafanici significa anche di uomo malandato, inservibile, da gettare tra i ferrivecchi), con il cuore da burocrati intriso di grigie leggi, tra qualche mese, in aprile, porteranno a processo il prigioniero rivoluzionario palestinese Georges Ibrahim Abdallah per giudicarlo della sua storia, della sua resistenza, della sua dignità di uomo in lotta, rinchiuso da decenni nelle carceri francesi.
Io mi metto al suo fianco, perché ho fatta mia l’idea della solidarietà rivoluzionaria ed internazionalista. Dove la lotta di emancipazione deve scavalcare ogni frontiera, patria, religione, cultura.
Perseguendo nella profondità della propria coscienza, la necessità di una lotta senza respiro contro le forze che ci opprimono e che mai potranno mettere in silenzio le idee di libertà ed emancipazione.
Saluto qui i miei compagni e compagne coimputate con cui il 1 maggio 2021 decidemmo di scendere in piazza al di fuori delle autorizzazioni di questura, per rompere un poco la cappa del controllo e della paura.
Facciamo sentire anche qui la giusta resistenza ed ostilità contro chi ci trascina nell’odio e nell’oblio della guerra fratricida tra sfruttati e sfruttate. Troviamo i modi più consoni per rilanciare il grido di “guerra alla guerra”.
Facciamo nostri gli atti di resistenza che arrivano dai disertori, dalle donne contro la guerra, gli antimilitaristi e antimilitariste della Bielorussia, Russia, Ucraina, di chi in Palestina decide di combattere ed opporsi alla guerra sionista, con obiettivi di emancipazione e libertà.
La nostra patria è il mondo intero!
Per una Palestina libera da Stati, frontiere, per una vita senza autorità!
Libertà per Georges Ibrahim Abdallah!
08/01/2024
Carcere di Sanremo
Luca Dolce detto Stecco
[Ricevuto via e-mail e pubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2024/01/23/comunicato-di-stecco-riguardo-allimposizione-della-videoconferenza-e-dichiarazione-che-avrebbe-voluto-leggere-il-19-gennaio-al-tribunale-di-trieste/]