Anna Beniamino: Fisiopatologia del mostro carcerario: veleni e antidoti (ottobre 2024)
FISIOPATOLOGIA DEL MOSTRO CARCERARIO:
VELENI E ANTIDOTI
Storie di topi e di uomini
Nei laboratori di farmacologia si testano gli antidepressivi con un esperimento di crudeltà squisitamente umana: si immerge un topo, drogato o “nature”, in un cilindro di vetro pieno per metà d’acqua e si calcola il tempo di nuoto disperato prima che sopraggiunga l’immobilità.
Di solito il roditore senza supporto psicotropo cerca di arrampicarsi lungo il cilindro e saltare per 5 minuti prima di arrendersi, gli antidepressivi allungano di qualche minuto i tentativi di nuoto disperato prima che sopraggiunga la rassegnazione.
Tolto il cinismo che trasmette, il test di Porsolt o “del nuoto disperato” è un’allegoria utile a illustrare la situazione attuale delle galere italiche e dello stillicidio di suicidi e rivolte di quest’estate nelle sezioni comuni1 sovraffollate, fatiscenti, carnaio di convivenze forzate in spazi risicati, in una parola umilianti la dignità umana: apatie e depressioni indotte da farmaci, la “terapia” onnipresente, tentativi di reazione disperata che assumono spesso forme autolesionistiche, egemonie da cortile, desolidarizzazione, risse infantili, dove c’è un travaso continuo di suggestioni e modelli da fiction tv, che poi è il diversivo lobotomizzante che supera la “terapia” nel pervasivo echeggiare di cella in cella.
All’infantilizzazione patologica dell’individuo il carcere lavora in maniera metodica, privandolo oltre che della libertà di movimento, di quella di scelta minima nel corso della giornata: il regolamento idiota e incomprensibile, la burocratizzazione estrema di ogni minuzia della sopravvivenza quotidiana. Meccanismi spersonalizzanti e deprivanti la propria umanità, la cui applicazione serve essenzialmente a stabilire la pressione della struttura repressiva (e la capacità di resistenza o adattamento dell’individuo), vengono gestiti in maniera asettica, alimentando un tritacarne dove le reazioni possono coprire tutto il ventaglio tra l’apatia anestetizzata e la rivolta come affermazione di sussistenza in vita più che rivendicativa.
A questa bolgia dantesca si sovrappone e fa da contraltare la frammentazione e il conseguente isolamento di sezioni e circuiti differenziati. Nella maggior parte dei compas ci si trova oltre che in numeri esigui, divisi dal resto dell’umanità in catene, chiusi tra sezioni di alta sicurezza e, ancor più isolati, in circuito 41bis2.
Le sezioni di alta sicurezza hanno un’ulteriore separazione interna per evitare contatti tra le/gli accusate/i di “terrorismo”, interno ed internazionale (AS2) e quelli di “associazione a delinquere di stampo mafioso” (AS3) e reati correlati, a scongiurare, agli occhi del legislatore, mostruose chimere criminali dovute all’incrocio tra specie diverse3. O, più prosaicamente, anche solo per evitare il diffondersi di una conoscenza di base dei propri diritti di carcerati, argomento su cui i prigionieri per motivi politici sono normalmente più ferrati, in quanto provenienti da ambienti più alfabetizzati in materia e più inclini alla dialettica conseguente.
In AS, con il lasciapassare della formula di “mafia” o “terrorismo”, si applica una strategia opposta alle sezioni comuni sovraffollate: separazione tra prigionieri, allontanamento dal luogo di residenza per rendere più difficoltosi i contatti con i famigliari, ridotti contatti con l’esterno (meno colloqui, 4 ore mensili, e meno telefonate, 2 mensili da 10 minuti l’una), pene più pesanti, con minore se non nulla possibilità di pene alternative sotto l’egida del 4bis o.p. 4.
Poi c’è il 41bis, il fondo del pozzo, la strozzatura dell’imbuto repressivo dove è più facile entrare che uscire, in massimo grado5, con un’estremizzazione ulteriore dell’isolamento, intracarcerario e extracarcerario: un colloquio di un’ora al mese con vetro divisorio e con registrazione audio-video, censura postale pressoché totale, limitazione degli oggetti consentiti in cella, tra cui libri e CD musicali, di cui è comunque reso molto difficoltoso, se non impossibile, l’acquisto; un’ora d’aria al giorno in cortili angusti e dotati di reti e con socialità con massimo altri tre prigionieri (in gruppi fissi selezionati dalla direzione).
Questo prologo, sgradevole, è per spiegare un minimo le difficoltà e le contraddizioni che si vivono, da antiautoritari, ad affrontare e combattere il carcere di questi tempi in questi lidi.
La strategia dell’isolamento, della sterilizzazione dei contatti umani e rescissione delle reti solidali non è ovviamente una prerogativa italica ma, come stanno ben comprendendo i compagni cileni, una pratica che si sta diffondendo e perfezionando anche lì, come nell’aggravamento delle condizioni di isolamento di Francisco e nella ristrutturazione dell’Alta Seguridad. Così come ovunque la ristrutturazione delle strutture detentive unisce alle logiche punitive verso il singolo refrattario quelle di un’efficienza “fordista” della repressione preventiva volta a creare livelli compartimentati e incomunicanti per gestire in maniera più efficace e asettica il controllo, dentro come fuori.
La gabbia e il suo rovescio: in carcere la stessa società che fuori?
Quello di definire il carcere come specchio della società ha il sapore di quei luoghi comuni troppo ripetuti per essere efficaci.
Non so se specchio ma spesso il distillato, la quintessenza delle pratiche repressive legate alla ristrutturazione sociale e politica, in forme più palesemente autoritarie (quelle più asettiche dell’UE e quelle più becere dei sovranismi nazionali sono equivalenti da questo punto di vista, si vedano le politiche antimmigrazione e la propaganda di guerra in corso) in un occidente che ancora non si capacita di essere in piena crisi e cerca con una mano di arginare con manie securitarie le falle di una nave che affonda e con l’altra di arraffare quanto più possibile per riempirsi le tasche prima del naufragio.
La ristrutturazione in senso autoritario si compie anche attraverso una sterilizzazione dei ristrettissimi ambiti di critica radicale e di opposizione, sterilizzazione spesso preventiva, con un abbassamento sensibile della soglia del tollerato: i reati d’opinione sono ora il target perché l’azione è già stata punita in forme draconiane. Si lavora alla costruzione/decostruzione del nemico, mostrificazione/svuotamento di significato e banalizzazione delle istanze di chi lotta o di chi non è omogeneo all’immaginario collettivo per come viene propagandato dai media.
In ambito italiano la retorica della “lotta antimafia” e della “lotta antiterrorismo” degli ultimi 25 anni del secolo scorso ha prodotto non solo legislazioni speciali con doppi binari repressivo-giurisprudenziali, ma le ha inculcate in maniera ossessiva nell’opinione pubblica. Fenomeni ben distinti sono ora inglobati in termini che hanno il solo scopo di giustificare un maggior rigore repressivo su “categorie” non difendibili a prescindere. Non è casuale la riunificazione in DNAA, Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, per ottimizzare il lavoro repressivo.
Se nelle sezioni di AS2 i numeri sono veramente esigui, le AS3 sono riempite da costanti e continue operazioni contro la “criminalità organizzata”, con “metodo mafioso”, un contenitore in cui far entrare un po’ di tutto, dallo spacciatore di strada con la famiglia che diventa “clan”, alla compravendita di voti, usura, riciclaggio di denaro… in pratica la manovalanza esausta, sacrificabile e scaricabile usata dalla politica istituzionale pei suoi affari. Una “classe media” rispetto all’umanità stipata nelle sezioni comuni in perpetua lotta per la sopravvivenza.
Più grezza, ma la piramide sociale dell’oppressione si concentra nell’imbuto carcerario con i suoi opportunismi, razzismi, collusioni tra potenti statali e territoriali. Alla luce di questo è pure interpretabile quel passaggio nefasto (che i redattori di Tinta de fuga hanno descritto come il paradosso del cittadino/poliziotto e del prigioniero/carceriere), il raffinamento delle tecniche di controllo, l’ultimo gradino della servitù volontaria per cui si creano gerarchie di controllo e sfruttamento per opportunismo o quieto vivere. Da qui apatia o rivolta. Rivolta ancora temuta dai tenutari di potere.
Il contesto di crisi economica e politica sta portando all’approvazione di un decreto legge con un pacchetto di provvedimenti definiti “sicurezza” che andranno a colpire target ben precisi: carcerati ed immigrati rinchiusi nei CPR (i centri in cui vengono detenuti i migranti in attesa di rimpatrio), manifestanti ecologisti, sindacalismo di base, stampa anarchica, occupanti di case, insomma un bavaglio alle piazze e all’autorganizzazione delle lotte alla luce delle varie “emergenze” da reprimere.
In specifico alle rivolte carcerarie del periodo del lockdown per il covid, agli incendi dei CPR per mano dei reclusi, agli scioperi della fame ed alle proteste si risponde con nuovi reati che puniscono l’istigazione a disobbedire alle leggi all’interno di carceri e CPR (commessa dagli stessi detenuti o da persone libere che hanno una comunicazione diretta con loro, per via epistolare o tramite presidi all’esterno delle carceri) e le rivolte, all’interno delle quali viene fatta rientrare anche la resistenza passiva. Non è un ossimoro ma la configurazione penale di un’ulteriore condanna a chi protesta pregiudicando l’“ordine” e “sicurezza” carcerari e nella cui vaga formulazione può entrare di tutto, dalla battitura alla fermata all’aria allo sciopero della fame, se compiuti in più di 2 persone.
Sullo stesso binario (l’inasprimento delle condanne e la configurazione di nuovi reati) si collocano una serie di obiettivi, con un vortice spudorato di manette e manganello sorretto dalla ratio di soddisfare il cittadino-poliziotto.
Si configurano nuovi reati e aggravamenti delle pene per una serie di pratiche connesse alla “gestione dell’ordine pubblico” sia nel quotidiano che in occasione di cortei e manifestazioni. Nello specifico entrano nell’occhio repressivo manifestazioni innocue come quelle ambientaliste in stile Ultima generazione (l’autoincollaggio sull’asfalto, l’imbrattamento lavabile); i blocchi stradali passano da reati amministrativi a penali; si allargano i margini di applicazione di particolari divieti in via preventiva (con un allontanamento dall’area urbana fino a 48 ore prima di un evento); le occupazioni abitative e i picchetti antisfratto sono penalizzati maggiormente, madri rom incinte o con figli minori di un anno finiscono direttamente in carcere senza differimento della pena, si aggravano le pene per accattonaggio. Dulcis in fundo si facilita il margine di manovra poliziesco con articoli che coprono le loro violenze in servizio e fuori servizio: aumento della pena se violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale sono effettuate nei confronti di un poliziotto, procedibilità d’ufficio per lesioni “lievi o lievissime” a questi e… possibilità agli appartenenti alle varie forze di polizia di usare 24h su 24, in servizio e fuori servizio, armi e manganelli, senza licenza a detenerli e tutela legale per i membri di esercito e polizia indagati per reati commessi durante il loro lavoro.
Non mancano profili di ampliamento dell’impunità penale inquietanti, sulla possibilità per funzionari e agenti dei servizi segreti di infiltrazione in associazioni terroristiche e eversive e relativo compimento di reati. Per contro se si detengono e/o diffondono testi contenenti informazioni su armi e sostanze pericolose usabili “per finalità di terrorismo”… fino a 6 anni di detenzione e revoca della cittadinanza italiana per i condannati per reati di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico.
I tempi di guerra si accompagnano sempre a pratiche di controllo di piazza e di stampa vista come il nemico interno da annichilire sul nascere. A volte questi tentativi riescono, a volte non fanno che rafforzare i motivi e i numeri di chi apre gli occhi.
Nello specifico delle operazioni antianarchiche si era già assistito al cambio di passo avvenuto durante e dopo la mobilitazione per lo sciopero della fame contro il 41bis e l’ergastolo ostativo e con le operazioni Scripta Manent, Renata, Scintilla, Prometeo, per arrivare alle operazioni Sibilla e Scripta Scelera dove il target è la stampa anarchica tout court per il suo ruolo “istigatorio” e dove, come nel caso del tenace sciopero della fame di Alfredo, i giochi di prestigio giurisprudenziali hanno trasformato la stessa resistenza fisica, la pervicacia nel perdurare in vita dopo mesi di digiuno, in elemento “istigatorio” verso il movimento di solidarietà… e quindi giustificatorio del suo permanere in 41bis in quanto istigatore… Cioè la maschera democratica è tolta, sei perseguibile come nemico interno, ostacolo al mantenimento dell’ordine a prescindere dai fatti, per il semplice fatto di esistere.
La costruzione del nemico, il ruolo dei media.. e le smagliature della rete
La costruzione del nemico non è certo un fenomeno nuovo nelle strategie repressive ma, in tempi attuali di assuefazione da sovraesposizione/negazione spudorata, assume aspetti orwelliani, con uso di media e social media per arrivare agevolmente al risultato di domesticazione e disciplinamento di massa. Rispetto ad altri anni e altri luoghi dove prevale la censura tout court, oggi, in tempi di informazione digitale e social media la censura funziona… attraverso una sovraesposizione mediatica, schizofrenica e ugualmente letale.
In occasione della mobilitazione per Alfredo e contro il 41bis, molto vivace, internazionale e multiforme, la grancassa dei media ha mostrato un crescente e morboso interesse con strumentalizzazioni politiche certo ma… con cortocircuiti comunicativi piuttosto interessanti. Fazioni politiche istituzionali, di governo e d’opposizione, che litigavano, in parlamento e nei talk show televisivi, sull’anarchico morente in regime speciale e, di conseguenza… volontariamente (poco) o involontariamente (molto) mettevano in evidenza le falle della narrazione imposta. Quella che è una tattica mediatica attuale di sovraesposizione/annullamento viene applicata metodicamente a queste latitudini – e non credo solo qui.
Si pensi a livello globale a quanto sta avvenendo sul genocidio del popolo palestinese in diretta tv ora declassato a normale amministrazione dell’orrore, con conta giornaliera dei bambini morti, degli ospedali bombardati e dei superstiti morti per fame. O alla conta giornaliera dei suicidi in carcere, in agosto un leitmotiv dei tg tv italici, ora nell’oblio. Questo alternarsi tra martellamento mediatico e oblio viene comunque interrotto dall’irruzione della realtà, dalla capacità dei fautori della guerra sociale a quest’ordine imposto di spezzare lo schermo dipinto.
La ribalta mediatica è reversibile in un attimo ma i riflettori che si accendono e spengono a intermittenza non dovrebbero abbagliare i refrattari e interrompere la continuità delle lotte.
Le lotte d’ampio respiro, con il fiato corto
In un contesto apocalittico e straniante come quello descritto fin qui non è difficile trovare i motivi per lottare, ma piuttosto quali scegliere per primi e come portarli avanti con continuità senza farsi prendere da quei meccanismi che pervadono la società tutta – dentro e fuori – di apatia, memoria corta e amnesie, volontarie o indotte che siano. La sensazione di una lotta impari e senza sbocchi paralizza certo, eppure qualche volta la minoranza anarchica riesce a darsi un ritmo adeguato, qualitativo se non quantitativo, che non è solo testardaggine da refrattari ma qualcosa che porta a risultati tangibili, parziali o di maggior respiro, che non sempre riusciamo a cogliere nell’immediato ma che ci sono.
Parto, per semplificare il discorso, da due esempi personali che mi hanno dato comunque una prospettiva di cambiamento, di intervento attivo, non di inerzia rispetto alle imposizioni della cattività. Nel corso di questi anni di carcere m’è capitato di portare avanti due scioperi della fame di discreta lunghezza, consapevole dei limiti dello strumento e nello stesso tempo della razionalità di quest’opzione, in galera: il primo a cui, insieme a me e ad altre due anarchiche all’Aquila, dove eravamo state trasferite in una nuova sezione di AS2 e dove volevano imporre un trattamento sovrapponibile per alcuni tratti al 41bis, avevano aderito altri compagni anarchici in carcere, accompagnati da una mobilitazione di area anarchica fuori; il secondo, sicuramente più conosciuto, nell’accompagnare il primo tratto del lunghissimo sciopero della fame di Alfredo contro 41bis ed ergastolo ostativo. I risultati ci sono stati comunque, in parte simili, in parte diversi.
Nel caso dell’AS2 femminile dell’Aquila si è arrivate, dopo un mese di digiuno, a un primo trasferimento quindi all’effettiva chiusura della sezione nel giro di un paio di mesi, rendendo palese la difficoltà dell’amministrazione penitenziaria a gestire la situazione sia a livello burocratico/locale che a farsi carico degli effetti di una mobilitazione che portava l’attenzione su di un carcere come quello de L’Aquila, fortino del 41bis nascosto sulle montagne.
Nel caso dello sciopero sul 41bis ed ergastolo ostativo si è avuto un parziale risultato positivo sugli obiettivi specifici ma una sconfitta sulle condizioni di detenzione di Alfredo, con un suo permanere in regime 41bis, “giustificate” dal successo della mobilitazione stessa. Però si è arginato un progetto repressivo di più vasta portata, sia sul processo singolo Scripta manent che sull’allargamento delle strategie anti-anarchiche. Si è riusciti a irrompere, per un tempo non indifferente, nella narrazione mediatica/censoria con un buon livello di mobilitazione italico e internazionale, mettendo sul piatto la realtà dei fatti.
Sentire Alfredo che dal fondo di una cella, in videoconferenza, nell’unico momento possibile, ironizzava durante le udienze sull’incoerenza assassina del finto garantismo sbandierato dai vari gaglioffi di governo era ed è un messaggio non recuperabile; vedere i media imbarazzati a dover sostenere che ‘sti anarchici avessero una condanna all’ergastolo o a trent’anni per una “strage politica” di cui nessuno aveva traccia e quindi implicitamente che tutta l’impalcatura puzzasse più di vendetta politica e silenziamento contro l’area anarchica piuttosto che di ordinaria gestione di un caso giudiziario; veder parlare di carcere e 41bis dopo che per anni erano stati un tabù, polvere da nascondere sotto il tappeto, vedere qualche crepa nel monolite a qualcosa è servito e servirà.
La stessa critica che attualmente è in atto sulla svolta autoritaria in corso e sul collasso del sistema carcerario risente, che piaccia o meno, di aver fatto uscire dagli ambiti ristretti di movimento argomenti scomodi e spinosi, ovviamente gran parte dell’indignazione democratica si indigna, per poi passare velocemente ad altro argomento con medesima sterile indignazione… ma qualcosa resta tra cui la capacità degli anarchici di rigenerarsi e acquisire nuova linfa, di non invecchiare, di intervenire in contesti diversi.
Da anarchici siamo sempre bravi a buttarci nella lotta, in momenti rivoluzionari o meno, spesso precorrendo i tempi, siamo però pessimi gestori sulla lunga distanza, c’è da ragionarci.
Il fantasma della rappresentanza, della delega, a volte paralizza ed è giusto avere sempre le antenne dritte a captare (e combattere) i rischi di strumentalizzazione politica o di meccanismi autoritari, ma senza scadere in autolesionistiche cadute di stima e di tensione funzionali solo alla controparte.
Richiamare a una certa continuità, reimparare ad avere una certa costanza nella lotta e nella discussione, senza fossilizzarsi, credo sia il primo esercizio di pensiero critico, se poi qualcuno la voglia classificare come istigazione… sono i rischi del mestiere… anarchico.
Anna,
Rebibbia, ottobre 2024
1 75 suicidi dall’inizio del 2024 a settembre, tra quelli censiti ufficialmente, e un numero non calcolabile di proteste, alcune con risultati significativi quali il danneggiamento e l’inagibilità di alcune sezioni comuni quali Regina Coeli, il minorile di Beccaria, etc.
2 In 41bis al 2024 risultano circa 740 persone di cui una decina donne. La quasi totalità è rinchiusa per accuse connesse alla c.d. “criminalità organizzata” a parte 3 prigionieri comunisti delle BR-PCC in isolamento in 41bis da 19 anni, un anarchico, Alfredo Cospito, dal maggio 2022 e una manciata di accusati per terrorismo islamico.
3 A partire dagli anni ’70, l’elevato numero di rivolte nate anche a seguito della convivenza tra prigionieri provenienti da esperienze di lotta armata e prigionieri per reati comuni che si radicalizzarono in carcere, ha fatto sì che nell’ordinamento penitenziario italiano ci sia una specifica attenzione alla divisione tra prigionieri, in base alla “pericolosità”, in regimi e circuiti differenziati. Alla differenziazione si aggiunge un allontanamento dai luoghi di origine e in carceri spesso difficilmente raggiungibili, fuori dalle città, nelle isole, etc.
4 Il 4bis o.p. è un articolo dell’ordinamento penitenziario italiano che rende alcuni reati “ostativi” “alla concessione di benefici penitenziari” con “accertamento della pericolosità sociale dei condannati per alcuni delitti”… ça va sans dire… “mafia” e “terrorismo”, con la richiesta di una “valutazione di rescissione dei legami con l’organizzazione di appartenenza”… da parte degli stessi organi di polizia che hanno portato agli arresti.
5 Da regime di emergenza non rinnovabile si è negli anni stabilizzato: il 41bis si applica per 4 anni e viene rinnovato ogni 2 con una decisione di immissione diretta del ministero della giustizia, su richiesta della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e una revoca valutata solo dal magistrato di sorveglianza di Roma, centralizzata nella competenza.
PDF: Anna Beniamino: Fisiopatologia del mostro carcerario: veleni e antidoti (ottobre 2024)
[Pubblicato in spagnolo nel numero 7 di “Tinta de Fuga – Periodico anarchico contra las prisones y la sociedad carcelaria” – Testo in italiano ricevuto via mail e pubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/02/03/anna-beniamino-fisiopatologia-del-mostro-carcerario-veleni-e-antidoti-ottobre-2024/]