Marianna M.: Ciò che dà senso alla vita dà senso anche alla morte
CIÒ CHE DÀ SENSO ALLA VITA DÀ SENSO ANCHE ALLA MORTE
Il 31 ottobre, al terzo piano di un appartamento in via Arkadias, mentre il mio compagno e ribelle Kyriakos Xymitiris stava lavorando dell’esplosivo, si è verificata un’esplosione che ha tragicamente causato la sua morte. Nel giro di pochi minuti, mentre mi trovavo nella stanza accanto, il tempo si è fermato, tutto è diventato nero e non potevo più muovermi. La situazione era incomprensibile, lo sviluppo inimmaginabile. Seppellita dalle macerie, cercavo di capire cosa fosse successo. I miei occhi si guardavano intorno in cerca del mio compagno, in cerca di aiuto. Lentamente mi sono resa conto che, sebbene il filo dell’azione del mio compagno fosse stato bruscamente reciso, la sua vita e le sue scelte di lotta sarebbero state un esempio storico di determinata resistenza, coerenza e dedizione, un trampolino e un’ispirazione per la lotta in atto. Due figure sono apparse e mi hanno offerto il loro aiuto mentre mostravo loro il punto in cui avevo visto per l’ultima volta il mio compagno, il punto in cui i nostri sguardi colpevoli si erano incontrati, sguardi pieni di rabbia per il mondo in cui viviamo, carichi di fiducia e desiderosi di momenti di vera libertà.
Nel giro di pochi minuti ero all’ospedale «Evangelismos». Sono stata immediatamente visitata e operata. Avevo un ematoma sulla testa e innumerevoli ferite sulla parte superiore del corpo. Sono rimasta intubata e completamente incosciente per i successivi tre giorni. Tempo sufficiente affinché la feccia «anti»terrorismo si precipitasse all’ospedale e reclamasse un campione di sangue. Il lunedì ho ripreso conoscenza e sono stata trasferita nel reparto di terapia intensiva, dove ho trascorso i tre giorni seguenti. Le condizioni erano accettabili e il personale medico ha cercato di favorire il mio recupero. Tuttavia, la stanza era circondata dalla polizia, che non ha esitato ad entratare nella sala di terapia intensiva durante i cinque minuti di visita della mia famiglia.
Dopo due giorni sono stata trasferita – senza alcun motivo apparente – in un reparto di isolamento, sorvegliato da numerosi funzionari di polizia fermi e altrettanti in movimento nei corridoi e sui piani circostanti. La porta della mia stanza è rimasta costantemente aperta, non concedendomi alcuna privacy, nemmeno durante le visite mediche. Dovevo mangiare, essere esaminata e lavata sotto lo sguardo «vigile» di ogni singolo agente di polizia. La maggior parte del personale medico e infermieristico si comportava, come da disposizioni, in maniera distaccata e non mostrava alcuna empatia nemmeno per le cose più banali, come la possibilità di effettuare un esame senza la presenza di un agente di polizia di sesso maschile.
L’insistenza del 22° ufficiale inquirente del Tribunale di Atene nel volermi interrogare nonostante la mia debolezza fisica e mentale era anch’essa espressione di un’atmosfera vendicativa. Dopo aver chiesto un certificato che attestasse la mia sufficiente «idoneità funzionale», che ha interpretato a sua discrezione, mi ha infine concesso un ridicolo rinvio di 30 ore. Ha così confermato che la sua priorità era la mia detenzione preventiva già stabilita e il procedimento giudiziario ai sensi dell’articolo 187A, organizzazione terroristica.
Venerdì 15 novembre, appena un giorno dopo la mia seconda operazione, sono stata trasferita nel carcere femminile di Korydallos. In quelle condizioni la vita non era facile. L’apparato repressivo ha giocato con la mia salute, in un contesto igienico miserabile e con ferite non rimarginate sul corpo e sulla testa. Senza le necessarie cure mediche, senza l’accesso ai farmaci di cui avevo bisogno. Una condizione alla quale devono far fronte tutti i detenuti, considerati cittadini di serie B che non hanno diritto a cure mediche, sottoposti a visite superficiali o inesistenti da parte dei medici del carcere, privati di interventi sanitari indispensabili, privati dei farmaci che si assumevano fuori dalle mura, con tempi di attesa lunghi mesi per le visite urgenti negli ospedali ambulatoriali.
LA GEOMETRIA DELL’ANTITERRORISMO
Ancora incosciente, poche ore dopo l’esplosione, l’apparato giudiziario, seguendo le istruzioni dell’unità antiterrorismo, già era in procinto di formulare un’assurda accusa. La fabbricazione di (piccole quantità di) materiale esplosivo e dispositivi esplosivi, con solo me e il compagno Kyriakos presenti sul posto e al corrente della cosa, è stata classificata come un’organizzazione. L’appartamento, al quale abbiamo avuto accesso solo per pochi giorni, è stato battezzato covo. Oggetti comuni trovati nell’appartamento in cui vivevo con il compagno Kyriakos, sono stati mostrati nei notiziari e bollati come elementi sospetti. Sulla base di tali fatti, la polizia antiterrorismo mi perseguita con l’accusa di «terrorismo». In ogni caso, non intendo soffermarmi sulla questione legale, né tantomeno esprimermi in termini di colpevolezza e innocenza. Mi rifiuto di accettare un’accusa basata sul paragrafo 187A, soprattutto nella misura in cui strumentalizza la morte del mio compagno nella maniera più spregevole. Intendo decostruire qualsiasi scenario repressivo. Al contempo, difenderò fino in fondo la mia scelta di stare in quell’appartamento, difenderò la necessità della lotta con mezzi che non rientrano nell’ambito del diritto borghese, difenderò le scelte del mio compagno, la sua memoria e il nostro rapporto.
Tracciando cerchi concentrici, l’unità antiterrorismo tesse la rete repressiva. Mette me e il mio compagno Kyriakos al centro e colloca amici, compagni ed estranei intorno a questo traballante costrutto. Nel primo cerchio viene inserita, tramite un arresto in stile hollywoodiano all’aeroporto di Atene, la compagna anarchica Dimitra (consegnatasi spontaneamente), la quale – contrariamente al femminicidio di Kyriaki Griva – è stata prelevata dall’aeroporto da un’auto della polizia in veste di taxi e portata alla stazione centrale di Atene. [ndt. Il riferimento è all’omicidio di Kyriaki Griva da parte del suo ex. In quell’occasione la polizia giustifcò il rifiuto di aiuto alla ragazza in pericolo, affermando che le auto della polizia non sono taxi]. L’unica “prova” contro Dimitra è la consegna delle chiavi dell’appartamento di via Arkadias a me e a Kyriakos al fine di ospitare alcuni nostri conoscenti dall’estero, ignorando l’effettivo scopo del suo utilizzo. È importante sottolineare che il giorno dell’esplosione lei si trovava all’estero, dove viveva da qualche anno. Anche lei è indagata ai sensi del 187A. Nel secondo cerchio è stato inserito il compagno Dimitris, anch’egli presentatosi spontaneamente alla GADA [ndt. Direzione Generale di Polizia dell’Attica], colpevole di aver riconsegnato al proprietario, su richiesta di Dimitra, il mazzo di chiavi dell’appartamento di via Arkadias. Sebbene si sia limitato a resituire le chiavi senza sapere altro e nonostante si trovasse al lavoro al momento dell’esplosione, anche lui deve rispondere delle accuse di cui sopra. Venti giorni dopo, gli «anti»terroristi tracciano il cerchio successivo con l’arresto del compagno anarchico N. Romanos. Nel suo caso, l’apparato repressivo ha sfogato la sua sete di vendetta sulla base di un’impronta digitale incompleta rilevata su un oggetto portabile, una borsa trovata nell’appartamento di via Arcadias. Due giorni dopo, l’ultimo cerchio viene completato con l’arresto di A.K., anch’egli in carcere, sulla base della ridicola “prova” del ritrovamento delle sue impronte digitali sulla medesima borsa. A quanto pare, l’“efficienza” dei laboratori dell’ELAS è riuscita a rilevare le impronte digitali di due persone con cui non ho nulla a che fare nel giro di 20 giorni, mentre le tonnellate di xilene del massacro di Tempi non sono state ritrovate nemmeno in due anni. Le ultime due persone arrestate devono rispondere delle stesse inconsistenti accuse.
GLI SCARABOCCHI DEI MEDIA
La linea «anti»terrorismo non è stata perseguita solo dagli investigatori ma, attraverso diversi meccanismi, anche da tutti i media. Fin dal primo momento hanno avviato una delle loro solite cacce alle streghe, prendendo di mira e calunniando ogni persona coinvolta. Gli infami dei media hanno trascorso innumerevoli ore a riprodurre e arricchire lo scenario mal costruito da parte del dipartimento antiterrorismo, impegnandosi nella consueta profilazione dei “colpevoli”. Con funambolismi giuridici, hanno collegato tra loro casi senza alcuna prova, hanno lasciato indizi, hanno commentato le nostre origini di classe, il nostro carattere e la nostra psiche attraverso sbirri da palinsesto e psicologi da palinsesto. Gli stessi infami che non hanno esitato a parlare di vittime inevitabili in occasione della strage di Tempi che ha provocato numerose morti, che scatenano tempeste razziste ad ogni occasione, che coprono stupratori, papponi e poliziotti assassini e che si inchinano continuamente di fronte ad armatori, industriali e politici.
IL DISEGNO DEL MECCANISMO GIURIDICO
La polizia «anti»terrorismo ha tracciato la strada, i media l’hanno spianata e ora la magistratura è chiamata a cementarla. Ed è così dunque che l’ufficiale incaricato cerca di interpretare le mie intenzioni sulla base di supposizioni. Con un’alchimia giuridica, mi incrimina sulla base della legge 187A in materia di terrorismo, che consente di convertire automaticamente qualsiasi atto «illegale» da me commesso in un azione terroristica. Cosí facendo, questa inquirente non solo ha la possibilità di inasprire la pena, ma di fatto riconosce l’esplosione in sé come un gesto pianificato e organizzato, che, date le circostanze – un’esplosione in un appartamento di un condominio – non può certo corrispondere alla realtà. Le idee e i valori anarchici – in antitesi a quelli dello Stato e del sistema di potere – hanno dimostrato negli anni un’etica rivoluzionaria e un’a resistenza’opposizione alla logica dei danni collaterali. Gli attacchi anarchici sono mirati e tengono conto della sicurezza delle persone non implicate. Pertanto, non è mai stata intenzione mia o del mio compagno provocare un’esplosione all’interno dell’appartamento e coinvolgere così tante persone, non importa quanto l’apparato statale cerchi di bollarci con l’etichetta di “pericolo pubblico”. Oltre alla strumentalizzazione repressiva e politica dell’esplosione, il governo ha avuto la sfrontatezza di versare lacrime di coccodrillo per i danni all’edificio e di assegnarne la riparazione direttamente a TERNA, nota azienda partner del governo, coinvolta tra l’altro nello scandalo delle dighe di Volos [ndt. il riferimento è alle inondazioni che a settembre del 2023 interessarono la cittá costiera di Volos e che furono rese particolarmente gravi e ed estese per via dei difetti strutturali di alcune dighe e dall’assenza di piani di emergenza per far fronte a questo tipo di eventi]. Attraverso questi metodi quindi, l’ufficiale incaricato del caso vuole lanciare un messaggio chiaro: qualsiasi fatto anarchico che si spinga al di là della legge sarà perseguito con un 187A, chiunque si rifiuti di sottomettersi alla legge e all’ordine imposto dal sistema sarà annientato in maniera esemplare.
Cinque persone, quattro delle quali non hanno nulla a che fare con quanto accaduto nell’appartamento di Arcadia il 31 ottobre, devono ora rispondere di congetture e scenari inventati. Il prestito e la restituzione di un mazzo di chiavi per ospitare qualcuno e le incomplete impronte digitali su una borsa non solo costituiscono una “prova” sufficiente per procedere all’incriminazione, ma sono idonei ad attribuire a tutti gli imputati lo stesso grado di coinvolgimento nel capo d’accusa.
LA REGOLA GEOMETRICA DI OGNI PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO AI SENSI DEL §187A
Ad ogni modo, il nostro caso non rappresenta di certo un’eccezione. Esistono innumerevoli esempi di militanti perseguiti sulla base della legislazione “antiterrorismo”. Accuse che costringono i combattenti a confrontarsi con un sistema giudiziario disposto ad agire sul terreno politico, estremizzando le accuse grazie all’ausilio della legge per il contrasto al terrorismo, la cui vaghezza consente alla magistratura di interpretarla a proprio piacimento. Le “leggi antiterrorismo”, che mirano a controllare e intimidire gli oppositori politici, a reprimerli preventivamente, a eliminare i nemici interni e qualsiasi manifestazione di contro-violenza sociale e politica, sono le armi della politica di repressione dello Stato. La legge antiterrorismo pone al centro le manifestazioni armate di lotta e le loro pratiche che sfidano le leggi e stabilisce un regime speciale, sia per quanto riguarda l’aspetto giudiziario sia per quanto riguarda la detenzione. Pene più severe, abolizione delle giurie miste, composizioni speciali di giudici, aule di tribunale speciali e un’eccezionalità giuridica sono solo alcune delle sue peculiarità. Ma questo attacco non si limita a coloro che scelgono deliberatamente di espandere le proprie pratiche attraverso mezzi armati. Non esita a colpire – spesso con la stessa intensità – anche coloro che sono loro vicini in modo da ottenere l’isolamento sociale e politico. Ma la domanda è questa: chi etichetterà chi come terrorista? Chi condannerà chi? Come può un sistema giuridico che esiste per proteggere gli interessi di coloro che sono al potere, la violenza che perpetrano quotidianamente, lo sfruttamento e l’oppressione che impongono, essere in grado di giudicare coloro che combattono? I soggetti che praticano il terrorismo sistematico non sono altro che i padroni e i loro rappresentanti politici, non sono altro che coloro che il complesso legislativo ha salvato nel tempo, perseguitando quanti sfidavano il loro dominio e reclamavano una società di uguaglianza e solidarietà. Si insinua che i militanti mettano in pericolo le organizzazioni internazionali, mentre sono le stesse organizzazioni internazionali che condannano intere società al genocidio. Si insinua che i militanti mettano in pericolo le istituzioni pubbliche, sebbene esse stesse siano state responsabili per secoli del dissanguamento predatorio delle basi sociali; si insinua che i militanti mettano in pericolo le popolazioni, ma sono gli Stati stessi a trascinarle nella miseria, nella guerra e nella morte. Come può quindi una legislazione che ripulisce coloro le cui mani sono perennemente macchiate di sangue portare davanti alla giustizia chi, con le sue azioni, intende indurre la paura a cambiare campo?
LA PERIFERIA DELL’APPARATO PERSECUTORIO
Diventa quindi chiaro che la natura della nostra persecuzione non è giuridica ma politica e può essere letta solo alla luce di un contesto specifico. Un contesto in cui l’Occidente, che negli ultimi anni ha strenuamente tentato di lavarsi le mani sporche di sangue del colonialismo spacciando inclusività e stato di diritto, sta ora imponendo apertamente la sua strategia globale e la sua egemonia ideologica. Nonostante il clima di instabilità, in cui nuove iniziative, “defezioni” verso l’altra parte e dimostrazioni di forza – piuttosto vuota – del dominatore globale diffondono insicurezza tra i suoi ex partner europei, il blocco imperialista occidentale cerca – invano – di dimostrare la sua “superiorità” culturale e il suo “progressismo” oltre che di dominare i luoghi di interesse geopolitico. L’UE sta definitivamente gettando la sua maschera umanitaria e tornando sullo scacchiere della lotta globale per la ripartizione. Svolge un ruolo catalizzatore negli sviluppi globali sostenendo finanziariamente e militarmente l’attacco di Israele contro la Palestina, militarizzando l’Ucraina e proteggendo i propri confini da milioni di persone spinte all’emigrazione dalle sue stesse politiche.
La Grecia ovviamente non fa eccezione. Con la trasformazione del Paese in un’enorme base militare NATO, lo Stato greco si schiera attivamente al fianco di Israele (un’alleanza che si basa anche su interessi economici). In un clima di instabilità, a pochi anni dai memorandum, l’apparato statale si dedica a spese militari, al rafforzamento dell’apparato repressivo e delle frontiere, gravando ulteriormente sulla base sociale. Il governo prosegue con la strategia socialdemocratica del bastone e della carota con privatizzazioni, inflazione e impoverimento, attacchi contro i sindacati, contro i contratti collettivi, contro il sistema sanitario e contro il sistema educativo greco, indirizzandosi verso una destra radicale neoliberista che – in modo piuttosto approssimativo – combina il radicalismo di destra con la dottrina della legge e dell’ordine. Tenta di adattarsi alle necessità del neoliberismo moderno e progressista, che – dopo gli anni dell’ascesa di classe, della yuppizzazione e dei golden boys – non può che offrire l’illusione dell’inclusione delle identità, che tutte le brave persone possano trovare il loro posto nel capitalismo – come una ben costruita pubblicità della Benetton. Alle identità cronicamente emarginate viene finalmente data “voce”, a patto che questa voce non metta in discussione il sistema che le ha escluse in partenza. E poiché lo Stato di diritto ha le gambe corte – e un elettorato ristretto – si chiede alla legge e ai suoi dirigenti di fare il lavoro “sporco”. Si inaspriscono le disposizioni penali e penitenziarie, si creano unità speciali repressive, si potenziano le forze di polizia esistenti, si rafforzano i confini terrestri e acquatici, si aumentano i pattugliamenti. Una nuova legge per ogni “problema”, un poliziotto per ogni legge – magari anche addestrato per i casi di violenza domestica. Lo Stato non solo viene potenziato, ma è pronto a combattere.
A combattere contro la “criminalità” che, come proclamano, minaccia la società nel suo complesso. In ogni angolo della città si verifica un “crimine” da parte di bande armate di giovani, adulti, immigrati, autoctoni, poveri diavoli, gangster, ultras, gruppi organizzati e non. Così lo Stato, autoproclamatosi responsabile delle nostre vite, impone pene più severe e più polizia. Una polizia che poi, alla fine, è sempre in qualche modo coinvolta in tutti i “crimini” che è chaimata a prevenire. Così, in un momento in cui l’apparato statale non ha altro da offrire se non il pugno repressivo e punitivo, esso fa della dottrina della “legge e dell’ordine” la politica di governo principale.
Sulla base di questa politica, il nemico interno viene individuato in ogni gruppo sociale che disturba l’atmosfera di “sicurezza”. Immigrati, tossicodipendenti, “poveri”, gruppi sociali in lotta. E naturalmente il movimento anarchico non può mancare in questo elenco. Un movimento che continuamente e con orgoglio sforna combattenti che agiscono con decisione e determinazione contro lo Stato e il potere. Sono queste iniziative di sfida al dominio, di creazione di solide condizioni, che propongono soluzioni qui e ora che destrutturano il monopolio della violenza da parte dello Stato. Attraverso la diversificazione degli strumenti di lotta il movimento anarchico, nel corso della storia, ha dimostrato il proprio posto. Un luogo in cui la logica della posticipazione non trova spazio, in cui i limiti della legittimità borghese risultano insignificanti di fronte ai lunghi anni di violenza statale e capitalista, in cui il pesante manto della responsabilità ricade prima di tutto su di noi. Dove la visione di un mondo di uguaglianza e solidarietà inizia nel presente, dove il compromesso non è un’opzione, dove l’attacco alla brutalità del sistema è una “decisione volontaria dovuta a una profonda empatia” e il passaggio alla controviolenza rivoluzionaria è una conseguenza logica e un mezzo necessario. Per tale nemico interno, il messaggio è chiaro: coloro che non possono essere assimilati verranno eliminati.
COMPAGNO, ELEMENTO DI CONNESSIONE, EDIFICATORE
Non omnis Moriar
(Non morirò completamente, una parte di me rimarrà in vita)
Il compagno Kyriakos Xymitiris era un determinato nemico interno. Una persona limpida e rivoluzionaria. Un compagno che univa teoria e pratica, che si gettava nella lotta e viveva la sua vita fino in fondo, confrontandosi con la sua responsabilità storica. Consapevole della sua identità politica in tutta la sua ampiezza, non è sceso a compromessi con la logica della procrastinazione e dell’inerzia, non si è adagiato, ha combattuto nei momenti difficili, ha sognato e ha preso posizione in maniera militante. In un percorso pieno di bivi, il compagno Kyriakos ha sempre scelto la strada giusta. A volte era percorribile, a volte impraticabile, a volte visibile e a volte invisibile. Attraverso il suo percorso di lotta, la sua partecipazione non negoziabile e integrale al movimento anarchico, il compagno rappresenta un militante anarchico consapevolmente multidimensionale che riesce a racchiudere il particolare mosaico di forme e manifestazioni di lotta che l’anarchia contempla. Nel portare avanti il proprio superamento individuale, ha adattato la sua vita alle misure e alle esigenze della resistenza, scegliendo un modo di vivere sinonimo di lotta. Ha contribuito alla lotta anarchica con sensibilità, empatia, autocritica, militanza e determinazione. Partecipando a iniziative aperte, occupazioni, picchetti, lotte sindacali, azioni femministe e antifasciste, azioni e conflitti, ha voluto contribuire all’incisività dell’anarchia. Nella sua ostinata e persistente ricerca di modi per affrontare la violenza quotidiana dello Stato e del capitalismo, ha cercato di esplorare gli angoli della lotta armata, portando il conflitto nel cuore del dominio e demistificando la violenza degli oppressori.
Con gli occhi sempre fissi sulla causa rivoluzionaria, si è impegnato nella battaglia con tutti i mezzi a sua disposizione. Assassinato dal mondo del potere che ha tanto lottato per cambiare, facciamo in modo che il suo ricordo sovversivo sia un invito alla lotta. Commemoriamo i nostri morti lontano dalla logica dell’accondiscendenza e del disfattismo, dando continuità e intensificazione alla lotta, con tenerezza e onore.
Che il 31 ottobre sia ricordato come un giorno di lotta, un giorno di responsabilità, un momento di resistenza. Perché la lotta non cerca compromessi, non vuole barriere ed egoismi. Non c’è spazio per leggi, convenzioni e limiti. Perché la lotta ha bisogno di determinazione e di visione. Ha bisogno di fede e dedizione, di rapporti veri e disponibili. Perché la lotta ha bisogno di persone umili e pronte. Persone essenzialmente ribelli e coerenti. Persone come Kyriakos, questo uomo meraviglioso
che ha riempito il cielo con la sua stella
accanto a tanti compagni e compagne
che con la loro luce – anche dietro le sbarre
riescono a illuminare le nostre notti più scure.
Abbiamo ragione, vinceremo
KYRIAKOS XIMITIRIS IMMORTALE
STATO E CAPITALE SONO GLI UNICI TERRORISTI
FORZA E SOLIDARIETÀ A TUTTI I COMPAGNI/E IMPRIGIONATI/E
LA SOLIDARIETÀ È L’ARMA DEL POPOLO
Marianna M.
[Pubblicato in greco in https://athens.indymedia.org/post/1634817/ | Tradotto in italiano e pubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/04/26/marianna-m-cio-che-da-senso-alla-vita-da-senso-anche-alla-morte/]
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EL: Μαριάννα Μ.: Αυτο Που Δινει Νοημα Στη Ζωη Δινει Νοημα Και Στον Θανατο
IT: Marianna M.: Ciò che dà senso alla vita dà senso anche alla morte
ES: Marianna M.: Lo que da sentido a la vida, da sentido a la muerte
EN: Marianna M.: That which gives meaning to life gives meaning to death
DE: Marianna M.: Was dem Leben einen Sinn gibt, gibt auch dem Tod einen Sinn