Insistere! Riflessioni sul ruolo della nostra carta stampata
INSISTERE!
Riflessioni sul ruolo della nostra carta stampata
Nel dicembre 2009 mi trovavo nella casa occupata Villa Amalias ad Atene. Una notte in vari compagni e compagne si erano fatti i turni sul tetto. Il pomeriggio a suon di bastonate erano stati cacciati dei fascisti da una piazza lì vicino, e si temevano degli attacchi alla casa. Rientrando dopo l’azione in quella vecchia casa occupata, si aveva la percezione di un forte senso di unità, molti erano i sorrisi sotto quei passamontagna e caschi. Qualche settimana prima, di notte, la polizia aveva bloccato la strada, dando il via libera all’attacco di un gruppo di fascisti tramite bottiglie molotov alla casa. In quelle settimane si dormiva con gli estintori a fianco del letto. In tanti e tante da tutto il mondo si era venuti in quei giorni nella città di Alexis per ricordarlo con rabbia, con il fuoco. Mille slogan, in mille lingue venivano scanditi con parole di lotta sotto la targa a lui dedicata nel quartiere di Exarchia.
Qualche notte dopo erano venuti molti compagni e compagne alla casa, perché doveva arrivare un camion. Si bloccò la strada, non solo per eventuali fastidi, ma perché si doveva scaricare una grossa macchina da stampa, e portarla in uno stanzone nel seminterrato.
Tante braccia quella notte avevano faticato. Il ferro dei pezzi piegava le schiene, assieme si spingeva, si tirava, si portavano a braccio le rotative giù per le scale, su scalini mangiati dal tempo. Uno dei ricordi più belli di quella notte era la percezione collettiva dell’importanza per il movimento di quello strumento, di possederlo, di avere autonomia nella nostra propaganda. Una macchina da stampa, forse un pezzo di antiquariato, ma nostra.
Un altro ricordo è di quando stavo a Trieste, durante qualche periodo di misure di polizia, nell’inverno 2011. Passavo spesso dei pomeriggi a dare una mano a Bonanno a piegare i fascicoli dei libri delle edizioni Anarchismo. Ed anche lì la macchina da stampa era in cantina. Pareti che poi un compagno dalle mani sapienti aveva isolato in difesa della preziosa nuova amica.
Forse è un destino che queste nostre stampanti stiano sempre in posti sotterranei, dove il sole non arriva, dove bisogna scendere per ripidi gradini, in luoghi che sanno di chiuso ed inchiostro, di carta e sudore.
Un po’ ci piace e ci ricamiamo sopra – a volte – rispetto a questa nostra vita da carbonari cospiratori.
Negli ultimi anni sono stati chiusi vari giornali e riviste anarchiche in Italia, alcuni siti sono stati oscurati. Che la produzione di strumenti cartacei dell’anarchismo d’azione in lingua italiana sia oggi al lumicino è cosa grave. I colpi della repressione hanno fatto chiudere svariati progetti tramite un’attenzione mirata e logorante.
Questi strumenti fanno parte della nostra storia, ed è evidente anche da quanti libri escano costantemente proprio dopo un lavoro di ricerca a partire da vecchi giornali o altri supporti cartacei. A mio avviso, l’informatica non dovrà mai soppiantare il lavoro di redazioni che mirano ad avere una distribuzione di strumenti cartacei. Perché già il modo e l’approccio con cui viene svolta una redazione di un pezzo di carta è molto diverso da un sito. E non è una questione di gusto antico, o di amarcord, bensì cambia completamente l’impostazione mentale della redazione, quindi dell’incontro tra compagni e compagne, la distribuzione nelle varie realtà, e soprattutto con i lettori. Essa ha ancora un grande valore ed efficacia se fatta con un certo spirito e costanza, e non ho problemi a dire che serve anche un certo spirito di unione e collaborazione.
Il ruolo di un giornale come “Bezmotivny”, per esempio, assolveva a dei compiti importanti per come la redazione aveva impostato la sua linea editoriale e di pensiero. Uno è quello della solidarietà internazionalista, dando luce e spazio ad alcuni fatti non secondari, come lo sciopero della fame nel 2022 in Grecia di Giannis Michailidis, o alla traduzione della campagna contro le leggi abortiste negli Stati Uniti, oppure l’aver pubblicato una lunga intervista ai compagni russi e russe di “Anarchy Today”. O ancora, nella costante pubblicazione di testi importanti usciti in varie parti del mondo, riguardo a prese di posizione consone alle nostre idee antimilitariste sulla guerra in Ucraina. O alla mobilitazione per Alfredo Cospito.
La costante traduzione delle parole che accompagnano le azioni in giro per il mondo è fondamentale per un movimento sovversivo, perché, così facendo, si può percepire cosa accade sia dentro che fuori del nostro movimento a livello internazionale, e come esso reagisce ai cambiamenti sociali dovuti alle manovre dei vari governi, di blocchi di potere, e della borghesia in generale. Così facendo si può anche avere fonti più dirette rispetto ai contesti sociali, su come essi reagiscono, e come procede l’intervento anarchico alle varie latitudini di questo mondo.
Qui non si tratta di sfidare lo Stato con la nostra testardaggine ed ostinazione nel ribadire i nostri princìpi e metodi che delineano le vie per raggiungere una vera liberazione da ciò che ci opprime, ma spingere chi è nella nostra stessa situazione di sfruttamento ad unirsi e a ribellarsi.
È da capire oggi come continuare questo nostro lavoro senza prestare il fianco scoperto. Qualcosa a mio avviso va cambiato, non per forza nei contenuti – poi ognuno ha il suo modo e stile nell’esprimere gli stessi concetti, valutazioni, tattiche –, ma c’è da riflettere sul fatto che se un certo lavoro ci viene impedito, qualcosa bisognerà pur fare, per non finire massacrati dalla repressione tramite carcere e misure di polizia infinite.
Sì, è vero che gli anarchici promuovono le loro idee alla luce del sole, ma in certi momenti bisogna anche intendersi su dove è meglio spendere energie e rischi. Personalmente credo che dare filo da torcere alla sbirraglia sia cosa importante e utile come ginnastica. Di questi tempi, le questure ci conoscono uno per uno o quasi, il mare del movimento rivoluzionario è veramente striminzito, al contrario di qualche decennio fa, perché allora rendergli il lavoro facile? Che si “guadagnino” lo stipendio questi ficcanaso! Non sono per nulla convinto che la nostra pubblicistica debba svolgersi alla luce del sole cocente, perché ci si scotta. Non sempre e non per forza, tutto qui. L’importante è mantenere in generale un certo senso comune – e sentirne la giustezza – dell’anarchismo d’azione, che continui a rompere questa cappa rigida e repressiva che abbiamo attorno in modo tale che non tarpi le ali alle idee e alle tensioni nostre e a quelle che cogliamo intorno a noi, come tendenti a un senso di liberazione e critica a questa società.
È evidente che in tutta Europa – per rimanere in situazioni che più o meno conosciamo da vicino – rispetto a qualche anno fa, la falce repressiva si sia allargata. In Germania i compas di Monaco sono stati colpiti con la legge n.129, un’operazione nella quale sono state sequestrate delle macchine da stampa, sono state sequestrate tutte le copie trovate nei locali perquisiti del giornale “Zündlumpen”, e gli stessi pacchi di carta sono stati portati via. In Inghilterra la rivista e il sito “325” sono stati chiusi, ed il compagno Toby Shone sta subendo ancora ritorsioni giuridico-poliziesche. In Grecia è stata bloccata l’uscita dal carcere di alcuni lavori editoriali della compagna Pola Roupa, come il suo libro Stato contro Comune. In Francia il compagno Boris era anche monitorato per la divulgazione del mensile “L’Anarchie!”, ecc.
Vecchie storie queste, le nostre idee e metodi sono ancora messi al bando, e si paga con anni di galera e misure infinite quando ci si ostina nel tenere coerenza rivoluzionaria, e se si è in galera si può finire anche al 41-bis. Questa è la situazione che tutte e tutti possiamo constatare.
Ad essa si aggiunge il clima censorio e inquisitoriale che si è accentuato e consolidato dopo l’onnipresente propaganda statal-borghese e scientista durante la gestione del Covid-19, e poi con la guerra in Ucraina. Oggi si attacca chi accenna ad avere un barlume di sensibilità con il massacro in Palestina, come sta succedendo ad alcuni editorialisti di alcune testate sicuramente non antagoniste.
La diffusione delle idee sovversive e rivoluzionarie è probabilmente ai minimi storici, almeno qui in Europa. C’è un forte scollamento sociale e di classe, la morale legalitaria è stata imposta nei decenni con massicce dosi di propaganda emergenzialista e securitaria. Lo sappiamo, ma dobbiamo sempre tenerne conto, perché, anche se non vogliamo, ci influenza tutti e tutte, perché noi agiamo e non siamo avulsi da questo contesto, e ad esso noi parliamo, e ad esso siamo di stimolo, e lo Stato e i padroni vogliono ovviamente soffocarlo. La capacità di manipolazione mediatica delle menti è ai suoi massimi livelli, con enormi somme di denaro spese per tenere in vita questa macchina che è sempre al lavoro. Con essa non possiamo di certo competere, e non si è in grado di spegnerla in modo duraturo e diffuso. Non ancora almeno. Perché se fosse il contrario, allora vorrebbe dire che esisterebbero già delle minoranze consistenti che agirebbero contro di essa, quindi con una presa di coscienza e incazzatura ben più diffusa di oggi. Per capirsi, intendo i numeri di quando i partigiani i Italia erano migliaia, e quindi il loro agire riusciva effettivamente a farsi percepire nel quotidiano. Oppure in certi momenti del dopoguerra, dove ogni giorno si registravano decine di azioni antagoniste rivoluzionarie, e decine di testate di movimento ne davano notizia, creando un circuito altro rispetto a quello dello Stato e della classe padronale.
Ad oggi, quindi, a mia conoscenza, non esiste qualche pubblicazione duratura e costante dell’area dell’anarchismo d’azione, ed è un fatto che va preso seriamente in considerazione. Qui non si tratta “solo” di mettere la lista delle azione o di usare certe parole, di usare un certo tipo di retorica e di dialettica, rispetto alla realtà che ci circonda.
Meno compagni e compagne mettono per iscritto le loro riflessioni individuali e collettive, più arido sarà il dibattito e poco presenti le nostre idee nel tessuto sociale. Sia perché esso – il dibattito – tende a travasarsi nel mondo di internet e ad accontentarsi di esso (qui si potrebbe aprire un enorme capitolo sull’analfabetismo di ritorno, la regressione cognitiva, di comprensione, ecc..), sia perché spesso fissare i ragionamenti su carta aiuta ad elaborare le idee, a cercare una reazione in chi ci legge. È un esercizio che non è scontato per tutti, me compreso. Spesso ci si lamenta che scrivono gli stessi compagni e compagne, e può essere anche vero, ma allora ognuno deve superare i propri ostacoli e limiti, in modo tale da poter controbattere dove si crede che ci sia da aggiungere o da obiettare. È uno sforzo non banale, soprattutto per chi non è abituato a farlo, ma la mia personale esperienza mi fa invitare i titubanti a non perdersi d’animo.
Qualcuno storcerà forse il naso pensando che l’anarchismo è prima di tutto l’azione, l’agire, e ne sono convinto anch’io, ma solo in parte.
Queste mie riflessioni sono in realtà frutto di un sentimento di urgenza nel momento in cui i nostri strumenti di propaganda sono ai minimi termini e questo mi preoccupa, perché so quanto sono stati importanti per la mia crescita… tutto qui. Allora butto queste parole nella nostra mischia.
Sono convinto che se non continuiamo a perseverare nell’elaborare le nostre idee e teorie, se non portiamo avanti anche la battaglia su questo piano, c’è un rischio di rimanere monchi perché la società è in rapida evoluzione. Noi abbiamo le nostre certezze e valori etici inossidabili, ma essi vanno ribaditi perché ci sia un costante passaggio di testimone anche teorico. Abbiamo dietro di noi una storia spesso sotterranea, infatti tanta nostra pubblicistica è spesso incentrata a svelare fatti minori, uomini e donne sconosciuti, ma che hanno contribuito alle idee tramite parole e azioni. Senza la carta stampata delle epoche passate, questo lavoro sarebbe impossibile, perché le nostre fonti orali sono spesso scomparse con la fine naturale delle vite dei compagni.
In queste storie apprendiamo che tempo fa per divulgare i nostri giornali o strumenti minori si facevano immani fatiche. Eppure, anche al confino sulle isole, arrivavano clandestinamente i nostri giornali, e si rischiava la vita per questo. Mi ricorderò sempre quando mi raccontarono che ogni settimana, durante la Seconda Guerra Mondiale, un compagno partiva in bicicletta dalla Toscana per arrivare a Parma con un carico di giornali. Rischi e sforzi per noi oggi sconosciuti.
All’epoca stampare anche pochi numeri di un foglio, di un giornale, era vitale per infondere forza ai compas rinchiusi o isolati, per tenere i contatti, per non sentirsi soli e cadere nella disperazione, per non disperdersi. “Non mollare” s’intitolava un giornale redatto da Gigi Damiani durante la guerra.
Rifletterei bene quindi sull’eventualità in cui si arrivasse a una sistematica repressione e persecuzione del nostro lavoro, su come riuscire a continuare a dire la nostra. Se questo lavoro non lo si può più fare con serenità, allora bisognerà trovare delle soluzioni fantasiose. Se chi legge pensa che io intenda che è in arrivo una dittatura, si sbaglia; è proprio in questo regime democratico che stanno avvenendo tutta una serie di nefandezze e in cui il perimetro della libertà si sta assottigliando. D’altronde, ogni giorno parlano del massacro di Gaza con una certa leggerezza morale, e con una fredda e cinica consapevolezza che tutto questo è giudicato come giusto e giustificabile perché è compiuto da una vera democrazia occidentale, il “miglior” sistema sociale auspicabile.
Come scrissi sullo stesso tema nel 2020 dal carcere di Modena, gli strumenti cartacei li immagino come un lavoro di concerto, con un certo supporto reciproco tra i redattori, dove e quando possibile. Dove il proprio lavoro specifico può contribuire ed amplificare quello altrui, in modo da aumentarne la profondità di riflessione o capacità di divulgazione. Questo sia per snellire il lavoro delle singole redazioni territoriali che spesso portano avanti dei progetti indipendenti, sia per rendere questa attività più agile e capillare.
Se osserviamo un attimo, spesso le piccole redazioni o in certi casi di singoli e singole compas che si creano, ruotano attorno o a contesti geografici specifici, o a piccoli e ristretti gruppi di compas che condividono una certa vicinanza, affinità, o interesse per qualche tema specifico. Tutto avviene in modo spontaneo e volontario, non abbiamo momenti centralizzanti – come i convegni della Fai italiana – in cui vengono decise le linee e i compiti collettivi. Questo accentramento non lo sopportiamo, ci viene l’orticaria, perché lo sentiamo come un embrione burocratico, di sintesi e creazione di possibile autoritarismo o di legaccio delle singole volontà e tensioni.
Bene, sono d’accordo. Allo stesso tempo, e lo ribadisco ancora una volta, credo solo che quando si crea un nuovo strumento, o quando si dibatte sul ruolo della comunicazione nel nostro movimento, si dovrebbe da conto il più possibile cosa può essere più necessario avere e fare in una certa fase storica e sociale. Sia per imparare dai nostri errori e limiti, sia per non disperdere le energie. Personalmente ragiono con un’ottica in cui quando penso e rifletto in termini di movimento cerco di farlo nel modo più ampio possibile, perché credo nell’unione dei singoli e dei loro intenti, che, se salda e capace di organizzarsi, possa concretamente dare scossoni – in termini di critica radicale – alla realtà, anche se si è in quattro gatti per città o provincia. Penso così anche perché sono sicuro che ne troveremmo giovamento un po’ tutti e tutte, anche in termini di entusiasmo e percezione di unione, indipendentemente dalle naturali differenze. Poi ognuno è libero di tirare la corda nella direzione più consona, sia mai che ci si fraintendesse.
Eppure anche un giornale che tutti conosciamo come appartenente all’anarchismo “anti-organizzatore” come “L’Adunata dei Refrattari” è durato per decenni per lo spirito di volontà e senso di sacrificio e collaborazione di centinaia di compagni e compagne. E quello spirito d’iniziativa, oltre ad affascinarmi, lo ritengo opportuno e necessario, ma deve essere un’urgenza sentita nelle teste, nei cuori, altrimenti le osservazioni di alcune redazioni di giornali o di siti (come “informa-azione.info”) continueranno a chiedere al vuoto confronti, critiche costruttive, o aiuto.
Il singolo strumento è sì tecnicamente in mano alla singola redazione, ma credo che sia in realtà anche in mano a chi legge, cioè ai compas in lotta.
Mi chiedo ancora e spesso se c’è interesse e una reale necessità a realizzare dei progetti che vadano oltre la propria cerchia di compas o poco più in là.
Per me la propaganda è come un tessuto fatto da trame sovrapposte. Ci sono alcuni strumenti creati per il movimento specifico, i quali possono fornire riflessioni e analisi che poi possono ritornare utili nella propaganda più spicciola e agile nelle singole realtà. O progetti incentrati su temi specifici che possono rendere più chiaro un nodo della società e quindi aiutare nell’inserirlo in un’osservazione più ampia, ecc.
Per esempio, temi come frontiere-immigrazione, femminismo, animalismo, antimilitarismo, lavoro e sindacalismo, e avanti. Tutti questi però se presi singolarmente non creano da soli una teoria rivoluzionaria, essi affrontano un singolo aspetto dell’oppressione, ma a volte manca un’analisi che si ponga dei reali problemi sulla creazione e necessità di una mentalità insurrezionale d’intervento che vada oltre il problema specifico.
Una lacuna che riscontro e di cui mi faccio carico anch’io è che nell’ultimo decennio almeno, tutta una serie di tentativi e ipotesi (esempio: lotta in Valsusa contro il Tav, lotta contro gli sfratti a Torino, contro il Tap in Puglia, contro la base di Mattarello a Trento…) non hanno poi prodotto dei lavori di critica/autocritica delle esperienze. O se è stato fatto – come per esempio per la lotta contro gli sfratti a Torino – nel giro di pochissimo tempo è sparito dalle distro o si è “perso” nel mondo di internet, quando per me certe cose dovrebbero rimanere fisse a disposizione di nuove letture. Raramente si teorizza quello che non è andato bene, i limiti nostri, e quello che invece ha portato a certi risultati. Troppo spesso si passa ad altro e si continua ad affrontare la realtà oggi più che mai con un senso di “inseguimento” degli avvenimenti e dei problemi sociali. Questo atteggiamento lo ritengo una tendenza e non una costante, e non dappertutto. Critica che rivolgo prima di tutto a me.
Ecco che la produzione di riviste periodiche o meno, o l’uscita di opuscoli o libretti – quindi con uno spazio e un pubblico lettore ricercato e specifico – hanno un ruolo fondamentale di analisi critica del nostro intervento nel suo complesso. Questo vale ovviamente anche per esperienze più lontane in senso geografico (penso alle rivolte in Cile o Hong Kong nel 2019, o alle proteste in Francia nel 2022), o nel tempo (in questo caso penso all’ottimo lavoro su agricoltura e rivoluzione uscito recentemente per le edizioni Porfido di Torino). Inoltre la complessità di questa società ci porta a studiare questioni sociali di non semplice comprensione. Quindo creare situazioni che approfondiscano temi ampi e in continua evoluzione, sarebbe utile per la nostra capacità di apprendimento di tematiche che altrimenti ci rimarrebbero più o meno oscure (ad esempio finanza, economia, alcuni rami scientifici…).
Il rischio che percepisco è che se ci ritroviamo senza questi mezzi per lungo tempo, per forza ancor di più ci affideremo all’“alternativa” di internet, facendoci perdere così il contatto con la carta stampata. Se così fosse, perderemo una battaglia. Diventeremmo monchi e pigri, ma anche ciechi, perché sottovalutiamo la necessità di strumenti che abbiano ancora una materialità nel ruolo comunicativo, perché sappiamo che questi pezzi di carta ci creano occasioni per incontrare altre persone, per ricordarci che la realtà è materiale, che il mondo del 5G e dell’IA ha un concreto peso sociale, oppressivo, artificiale, di classe, su cui non abbiamo alcun potere di autogestione – come qualcuno predica –, l’unico nostro potere è distruggerlo.
Valorizzare e creare questi strumenti è compito di tutti e tutte che sentono certe necessità, liberarci dalle protesi tecnologiche anche.
Liberiamoci dalla gabbia, per non smaterializzarci dalle strade, dai sentieri, per dare valore a tutti i momenti di discussione e scrittura. O forse dobbiamo pensare che dopo il periodo di chiusura dovuto al virus ci si è adagiati anche noi nel soporifero e mortifero mondo a distanza? Questo è stato studiato e programmato per soddisfare e stimolare corde umane come la consolazione e l’appagamento, quindi veniamo portati verso un impercettibile senso di impotenza, do costante controllo, ma anche un senso di appagamento nel fare un qualcosa che però non ha nessun peso sulla realtà.
Creare invece redazioni di strumenti cartacei come un foglio, un giornale o una rivista, ci porta anche a tutelarci dalle trappole disposte sul nostro cammino per disarticolare e depotenziare le nostre tensioni, la nostra rivolta.
Dico questo anche perché il peso del ricatto morale su ognuno di noi è e sarà sempre più pesante. In questi ultimi anni esso è aumentato in modo esponenziale; dal discorso “untori” irresponsabili durante il lockdown, a chi rifiutava poi i “vaccini” biotecnologici e chi si opponeva al Greenpass, poi con la guerra in Ucraina, ed ora la Palestina, con l’accusa di antisemitismo se si prova a dire qualcosa su questa carneficina. Si potrebbe continuare l’elenco, ma intanto avanza il controllo sociale con l’introduzione dello Spid e altre misure burocratico-tecnologiche della vita.
Quindi tenere in esercizio una critica radicale testarda, sottile, che non dia spazio a fraintendimenti riformisti e recuperi in questo mondo nefasto, è sempre più essenziale per tenere vivo un senso di repulsione. Anders diceva ad Eatherly:
Direi quasi, paradossalmente, che dovremmo essere grati ad esse [le cause del nucleare] perché ci impediscono di diventare pigri.
Tenere viva ed energica forza morale e una spinta ideale che ci faccia dire: “Vaffanculo a questo schifo, rimaniamo antiquati, quindi umani, quindi ci ribelliamo ed organizziamo fuori dalle leggi imposte di ogni sorta”.
Oggi più che mai con una gioventù affascinata e nata totalmente immersa in questo tetro abbaglio tecnologico, è fondamentale spargere il dubbio, ma anche alimentare un senso di necessità ad opporsi a questo progetto mortifero ed assassino. Per farlo bisogna allargare la nostra fantasia morale, quindi la chiave della nostra ribellione contro quello che si crede inaccettabile. In un’epoca in cui l’angoscia morale è ai minimi termini, e quella che c’è è bloccata nei gangli del sistema di recupero e legale, ecco che ci parlano – i nostri nemici – di centrali nucleari tascabili, di bio e nanotecnologie, di microchip al cervello, di Green New Deal, di cibo sintetico, di laboratori batteriologici e immunità penali per i camici bianchi, di nascite in provetta, di manipolazioni genetiche in ogni aspetto della vita. Senza contare i vecchi obbrobri del capitale e dello Stato, come le infinite baraccopoli metropolitane per l’eccedenza umana esclusa, e i nuovi lager occidentali in Ruanda o Albania, Libia, Messico.
Diventa imprescindibile attaccare il sistema capitalista su tutta la linea, soprattutto negli angoli per lui più imbarazzanti o essenziali.
L’accettazione e la condivisione della società del terrore, dell’irresponsabilità individuale e collettiva di fronte a certi avvenimenti, invenzioni o studi scientifici va denunciata e continuamente criticata. Essa si innesta in una propaganda collaudata da decenni in termini di belligeranza e guerrafondaia, ed essa ci spinge all’urgenza di tenere vive tutte le nostre facoltà per creare una critica radicale e una mentalità rivoluzionaria presente nella realtà, che sappia smuovere le coscienze sopite.
Purtroppo constatiamo un basso livello di conflitto e di rabbia, neanche le classiche stragi padronali per i loro interessi economici hanno fatto vedere qualche reazione degna di nota (vedi il processo riguardo il ponte Morandi, o i morti al cantiere di Esselunga a Firenze, o le infinite vicende dell’Ilva).
Anche la rabbia¹ dei giovani arabi in Italia per il massacro di Gaza si è esaurita, è stata perimetrata, soffocata, da adulti troppo pragmatici, da legacci religiosi, da equilibri di potere, o vincoli di ricatto.
Il compito di nominare i nostri nemici e nemiche di classe rimane sempre di stretta attualità. Anders scriveva al pilota dell’aereo che sganciò la bomba su Hiroshima, Claude Eatherly, queste parole datate 22 luglio 1959:
I fisici che seguiteranno a lavorare allo sfruttamento militare di progetti atomici, finiscono per sentirsi circondati da un mondo ostile, da un mondo che li considera nemici, dispregiatori di ogni valore e distruttori potenziali dell’umanità.
In un’intervista rilasciata ad un giornale verso la fine degli anni Ottanta, Anders li definiva prede. Queste prede sono attorno a noi, e la lista è molto ampia, vista la mole di gente che lavora per progetti di guerra o nefasti per tutta l’umanità sotto molteplici punti di vista. I responsabili di questa situazione li troviamo sia nella classiche figure di burocrati di Stato, o dell’opinione pubblica asservita, nelle caste religiose o militari, sia, oggi più che mai, dietro le cattedre e nei laboratori. Miliardi di persone soffrono questa situazione in modo supino, servizievole, spesso perché sotto ricatto o altre motivazioni a noi note.
Ma nonostante l’aria sia pesante, abbiamo visto e vediamo in giro per il mondo proteste, le ultime in ordine cronologico in Senegal e in Argentina.
Nel 2019 gli esclusi ed escluse si sono fatti sentire in modo intenso e radicale, infatti chi ci opprime ha risposto in modo chiaro, con l’emergenza Covid e la sua gestione militar-sanitaria, oggi con le guerre, l’inflazione, la martellante propaganda bellica ed emergenzialistica..
Con i nostri strumenti possiamo rompere un poco questa cappa, chiarirci le idee, ipotizzare nuovi interventi, qualcuno propone un cambio di paradigma, rinnovare i nostri schemi stantii che forse ci rendono sicuri di fare il minimo sindacale, ma che ci portano via freschezza ed entusiasmo nell’intraprendere nuove vie ancora non scoperte, ignote, ma che ci fanno sentire vivi, e forse imprevedibili.
Per farlo, c’è un lavoro di non poco conto, per riuscire ad intenderci, per risolvere diciamo i nostri “problemi interni”.
Confido in un senso – lo so che mi sto ripetendo – comune di comprensione, di mutuo appoggio, e soprattutto di umiltà. Io posso solo auspicare questa direzione riparatrice, non ho nessun potere di incidere sulla realtà fuori da queste mura, ma posso – questo sì – infondere qualche parola di fiducia diretta in un’ottica di concreta e sentita sorellanza e fratellanza tra di noi.
Se questo avvenisse, sono sicuro che anche la nostra propaganda ne beneficerebbe, perché porterebbe non all’omogeneità delle idee e delle pratiche – guai se così fosse –, ma a una serenità nel dibattito e nella cooperazione tra di noi, indipendentemente se a volte si sente di seguire strade diverse ma parallele nella ricerca della libertà per tutti e tutte.
Questo testo l’ho scritto tenendo da conto che la mia assenza fisica dal movimento data dal febbraio 2019. In pochissime occasioni ho potuto confrontarmi con i compagni e le compagne su tutta una serie di questioni e problemi prima di partire. E sono sicuro che la mobilitazione per Alfredo sia stato un momento di crescita, esperienziale, di fatiche e di molto altro. Quindi ignoro molte cose accadute negli ultimi anni e discusse all’interno del nostro movimento, a parte quello uscito pubblicamente.
È un invito a perseverare i nuovi e vecchi progetti. Se le nostre necessità ci vengono impedite, allora troviamo altre soluzioni, adatte ad un’ epoca di omologazione del pensiero e della sua repressione trasversale.
A volte si sente nell’aria che bisogna dire esattamente quello che si pensa senza troppe precauzioni. Credo che sia un momento in cui agli sfruttati e alle sfruttate bisogna parlare in modo chiaro, per infondere il senso di una possibile vita altra, della giustezza di concrete pratiche di autodifesa e di attacco, di mettere a tacere il mondo dei vecchi e dei nuovi nemici di classe. E anche di mettere da parte i falsi amici, di smettere di cadere in vecchi tranelli e fumose idee di emancipazione imbalsamate e deleterie, per arrivare ad una concreta libertà.
Per finire, dico che i momenti di discussione attorno a progetti redazionali sono sempre stati momenti di crescita e di conoscenza.
Passare giorni interi insieme, a scrivere, a discutere, a cucinare e a dormire assieme, buttati qui e là in qualche casa o posto nostro, a passare notti insonni per trovare parole e metodi adatti ai problemi della lotta, a condividere letture o ringalluzzirci nel leggere qualche fatto di ribellione e potersi perdere nei nostri sogni, ripaga le fatiche, i lunghi viaggi, le apprensioni e le delusioni. Questi momenti creano legami importanti. C’è poco da fare, questi momenti di intimità collettiva non potranno mai essere barattati con la virtualità di qualche programma video, od obbrobri simili. Perché è guardandosi negli occhi gli uni con gli altri che si scoprono nuove affinità e progettualità.
Saluto qui tutti i compagni e le compagne redattori di nostri giornali e siti sotto processo e ristretti dal carcere e misure.
Se chiudono un progetto, ne apriremo altri dove non si aspettano, anonimamente o mettendoci la faccia.
Non molliamo, è questo lo spirito con cui ho messo giù queste parole.
Carcere di Sanremo, febbraio 2024
Luca Dolce detto Stecco
1. Il 23 febbraio la Rai ha trasmesso il dato del Ministero degli Interni in cui comunica che in Italia dal 7 ottobre ci sono state 1043 manifestazioni pro-Palestina. Questo dato è puramente quantitativo, e non è indice purtroppo di una qualità del conflitto in questo Paese. Se fosse diversamente, la cronaca avrebbe tutt’altro tono rispetto agli avvenimenti in corso.
[Tratto da https://ilrovescio.info/2024/05/22/17736/ e ripubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2024/05/23/insistere-riflessioni-sul-ruolo-della-nostra-carta-stampata/]