Vivere è un problema qualitativo. Se non lo si vede in questa prospettiva, che senso ha la vita? (Alfredo M. Bonanno)

Vivere è un problema qualitativo. Se non lo si vede in questa prospettiva, che senso ha la vita? (Alfredo M. Bonanno)

Il compagno anarchico Alfredo M. Bonanno è morto a Trieste il 6 dicembre 2023, a 86 anni.

Introduzione a Oltrepassamento e superamento

Il problema della qualità non è una questione filosofica, appartiene alla vita e da questa, e dalla ridda selvaggia di urticanti ambasce che ne vengono fuori, trova poi sistemazione e acquietamento nella riflessione.

Vivere è quindi un problema qualitativo. Se non lo si vede in questa prospettiva, che senso ha la vita? Sarebbe una morte pagata a rate, un avvicinamento a qualcosa considerata futura che invece è di già accaduta, quasi senza destare sensazione alcuna. Chi resta immerso nella quotidianità del quantitativo, superando, di volta in volta, i vari problemi che lo fanno sembrare vivo, è un fantasma senza saperlo.

Ogni muro è protezione e ogni protezione è un annuncio di morte. La paura di morire spinge a costruire muri e certezze fantastiche, basta pensare alla religione, e cerca di vincere la progressione acquisitiva, il possesso, che se da un lato mi dà conforto contro la morte, dall’altro mi avvicina sempre più proprio alla morte. Il risultato è un’accettazione della conquista come male minore e della perdita come male maggiore. Rovesciare questa scala di considerazioni non è possibile se non azzerando il mondo.

Ho in sospetto il determinato e il definitivo, coloro che si trincerano dietro la norma sono provvisti di toga e ritengono le proprie esperienze personali assolute. La vita stessa è imperfetta e la quantità, pure presentandosi come specificazione resta se non imperfetta, che poi lo è lo stesso, almeno incompiuta. Chi crede nell’esattezza è un dittatore in potenza, e spesso anche in atto. La matematica, di cui a torto ci si fa pregio di determinatezza, quando non è tautologia semplificativa è approssimazione e tendenza. Mi avvio verso livelli sempre più intensi di questo convincimento e mi traduco io stesso nell’improbabilità qualitativa, ciò mi avvicina alla vita come alla morte. È il gioco della diversità.

Insufficiente a diventare me stesso, ecco la sentenza di morte che a volte mi prende alla gola e mi soffoca con la sua antica evidenza. I tentativi critici sono una boccata d’aria ma devono riuscire a vincere lo scoramento e questo non può essere compito loro, non possono negare la morte, e la mia vita non può essere accettata come un banale processo fattivo verso la morte, non sarebbe degna di essere vissuta. Al di là, lo scoglio dell’oltrepassamento che chiede la mia totale presenza, il delirio che non ha remore, che non tiene conto della tristezza del cadavere, ma che punta avanti verso la trasformazione attiva, prima di tutto di me stesso. È difficile immaginare l’intensità di una lotta con se stessi avente come scopo l’abbandono, la circumnavigazione della volontà. Intrapresa demente che mi fa restare sbigottito prima dell’azione, ma che nell’agire non è altro che la diversità operante, la distruzione reale del mondo dell’apparenza. Non posso accettare compromessi e nemmeno le interpretazioni negative, queste ultime mi hanno aiutato a mettere a nudo la duplice faccia del fare, ma ora sono solo, o diventare me stesso, o tornare in ceppi, sconfitta che deve essere una conquista per diventare quello che sono, non una rinuncia per paura.

Di fronte alla specificazione mi sento catturato e portato come schiavo al cospetto dell’evidenza. Ma riuscirò a indicare con la medesima logica le cose che pure sarei in grado di individuare nell’intera costruzione. Così mi accodo anch’io al coro saggio e moderato che produce imprecisione spacciadola per completezza. Accetto il dominio di chi fissa le regole più assurde fondandole sulla logica di cui conosco i trucchi e le mascherature. Rompere significa affrontare il rischio di piombare nel caos e di avere subito desiderio di ricorrere a un riordino immediato ancora più feroce. Con questa rottura apprendo però che la morte non è un accadimento del mondo, programmato con gli stessi metodi del produrre, ma è un cenno del destino che può essere trasformato dalla mia azione qualitativa. Questo indizio mi sconvolge la vita.

Messo di fronte alla desolazione faccio appello a forze che non pensavo di possedere. Mi dilato, il mio corpo reagisce positivamente, le condizioni avverse mi fortificano e mi essenzializzano, il disgusto per le apparenze scompare e al suo posto dilaga il desiderio eccessivo. Il deserto è un gioire che preannuncia la presenza dell’assenza, ma è un rischio. Guai a chi alberga deserti pensando di portare i propri bagagli con sé, specialmente quelli di Dio trafugati dal cielo in terra. L’azione ci stacca dalla vita e anche dalla morte, tutti i conteggi, se dovessero avvenire, sarebbero semplice rammemorazione. Secoli e millenni si riassumono in un attimo, progetti e sogni non si realizzano, si bruciano sulla punta di uno spillo.

La qualità compartecipa di una onniscienza ingenua che mi affascina proprio perché non spiega e non vuole che io capisca. Mi afferra per i capelli, non mi offre madeleine profumate. C’è in lei tutto l’orrido possibile della verità, quello che l’uomo è quando dal suo ventre squarciato escono le putride viscere a dire buona giornata a un mondo che non è il loro. E il mondo non vuole vederle e le nasconde sotto l’apparenza di una pelle a volte splendida e simmetrica, a volte rinsecchita e gonfia, contenitore del cadavere che giace bene occultato. Ma la verità comincia da quella delirante massa informe che rifiuto di accettare come parte della vita e della morte.

La qualità la colgo in maniera irragionevole, non posso sottoporla a un ragionamento che la identifichi. Chi si accinge a questo chiede la luce, chiede quei lumi che uccidono la qualità e la separano ancora una volta dalla quantità. Nel cogliere la qualità ho l’impressione di dissolverla, di farla mia ma di perdere la distanza necessaria a capirla, la colgo facendomi cogliere, consentendo una intimità che non tollera barriere. Mi abbandono a questa intuizione che mi coglie e quindi avverto una sensazione irreale che mi attraversa tutte le vene, un palpitare del cuore che non posso né voglio regolare. Nella qualità parla la voce dell’uno, ma non dice parola, mi indica l’universale, non specifica il particolare, allargo così una indefinitezza che di già mi sta penetrando fino dal momento in cui mi sono coinvolto, tutte le concordanze e i parametri, tutti i miei riferimenti sono sfumati nel nulla, mentre sono proprio io, la mia assoluta individualità, che diventa centro e riferimento di questa incredibile intensificazione. La qualità è tutto, quindi non ammette specificazioni, anche il mio nuovo balbettio cerca di farsi strada e di cogliere diversamente le intensità che via via mi si propongono. Ma anche i minimi accenni di intensità comprendono l’intensità massima dell’uno, non ne sono il simbolo ma la possibilità di pieno sviluppo. L’essenza della totalità dell’uno che è mi dice questa partecipazione, anche se per me questo dire è un semplice brivido nella schiena, un parossismo eccessivo che non ammette riferimenti stabili. L’eccesso di questa intensificazione è l’intensificazione stessa, non un momento che succede a un altro. Volere bloccare tutto questo per amore della specificazione è un uccidere il parossismo eccessivo che lo anima, la bizzarria della diversità che dilaga in bagliori inaccessibili, in riflussi preziosi ma inservibili, non racchiudibile in una concezione occlusiva dell’uno. Questo rapporto con la qualità è vissuto da me totalmente, non è moto dell’animo, ma fantastica spiritualizzazione. Il mio corpo lo vive e lo assorbe, non ne rimane indenne, la qualità si intensifica nella mia carne, non in un fantasma creato apposta per sostituire il mondo. L’eccesso fa fremere il mio corpo, non una parte di esso, mi fa fremere tutto, non uno spicchio dell’anima soltanto, e divento fecondo della totalità proprio perché inglobo nel mio essere colto, la quantità alla quale tornerò, ancora una volta, a rammemorare tutto questo.

L’eccesso è un viaggio all’indietro, agli albori del mondo, quando tutto era possibile, e nell’eccesso tutto è possibile, assolutamente tutto. Vive in esso l’oltrepassamento continuo e va avanti verso lidi per me inaccessibili che solo lui conosce, e ancora oltre, zone dove solo il parossismo consente di accedere, dove le tensioni non si possono spezzare perché continuano a tendersi all’infinito senza rispetto alcuno, dove non ci sono parole che aprono nuove vie, perché le vie sono tutte aperte e le parole tutte mute. La suprema agonia del fare è un eccesso troppo piccolo nei confronti di quello a cui sto riferendomi. La gioia è solo una spolveratina di zucchero sulla torta. Il gioco dell’eccesso è impalpabile non avendo proporzioni o misure, quindi è disarmonico come l’ingenuità e la disperazione. Non mi consente di capire il motivo del continuo rilancio, e ciò perché questo motivo manca, e sarebbe assurdo sollecitarlo o imporlo con la forza dell’apparenza, resterebbe il motivo del fare e giustificherebbe quelle piccole pazzie del mondo, quelle stucchevoli manie da collezionista che mi hanno soffocato per troppo tempo.

C’è in me una forza non conosciuta che mi spinge verso l’oltrepassamento, un demone che non riesce a parlarmi e di cui sconosco il linguaggio. Mi stacco dalla processione che travolge gli uomini e mi faccio coinvolgere da questo desiderio, mi stacco perché chiamato non da parole ma da sollecitazioni intuitive. Ciò mette in crisi la mia sicurezza, la mia garanzia, mentre accedo alle condizioni terribili dell’azione, che sono vicine alla desolazione dell’uno. L’azione è creatrice perché è l’assenza che diventa presenza e mette o rimette in gioco il rischio e la perdita, sostituendole alla garanzia di un possesso apparente e incompleto, fantasma e inquietudine spacciata come realtà. La garanzia che poteva riprendere il dominio del mondo, ora è lontana, anche se un solo pensiero di dubbio potrebbe ripristinarla in pieno.

Meno che mai sono qui pronto a soffermarmi sulla linea di demarcazione. Non so dove si trovi né, in fondo, l’ho mai cercata. Sono un cieco e non ricordo nemmeno di avere mai avuto occhi per vedere. Eppure lo stesso sono andato oltre. Oltre tutto questo, perfino oltre queste stesse righe che mi sto cucendo addosso come un sudario.

Trieste, 22 aprile 2014

Alfredo M. Bonanno

[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, Oltrepassamento e superamento, Edizioni Anarchismo, Trieste, 2015 | Disponibile anche online in https://www.edizionianarchismo.net/library/alfredo-m-bonanno-oltrepassamento-e-superamento | Introduzione ripubblicata in https://lanemesi.noblogs.org/post/2023/12/07/vivere-e-un-problema-qualitativo-se-non-lo-si-vede-in-questa-prospettiva-che-senso-ha-la-vita-alfredo-m-bonanno/]