La miccia è ancora accesa

La miccia è ancora accesa

La miccia è ancora accesa

È passato un mese e mezzo da quel 31 ottobre. Nonostante non fossi lì, con Kyriakos e Marianna, le immagini di quei pochi secondi mi perseguitano e probabilmente continueranno a farlo per molto tempo. Credo però che il presente, così come il futuro, vada affrontato con una certa compostezza. E non per becere questioni di orgoglio o di immagine, ma perché di fronte al potere ogni nostro atteggiamento remissivo è un dono offertogli. Dinnanzi ad ogni nostra debolezza c’è uno sbirro che ride. Davanti ad ogni nostro tentennamento c’è un’autorità che si rafforza. Il sistema si nutre delle nostre difficoltà. Mi ha fatto molto piacere, a tal proposito, ascoltare alla radio le parole del compagno Lello con le quali ricordava Licia Rognini (deceduta il mese scorso) e rammentava il forte esempio di dignità che lei gli trasmise durante un’intera vita, quella di Licia, trascorsa senza il marito Giuseppe Pinelli, anarchico, scaraventato giù dalla finestra della questura di Milano il 15 dicembre del ‘69, esattamente 55 anni fa. Una vita spesa «senza dare un segno di resa, neanche da un punto di vista emotivo, che è quello che tante volte il nemico aspetta. Aspetta un tuo momento di debolezza[…]Noi non abbiamo il diritto pubblicamente di mostrare fino in fondo il nostro sconforto, perché ne approfitterebbero[…]».
A questo punto suppongo dovremmo almeno chiederci su cosa andrebbe ragionato a livello individuale e collettivo, data l’indubbiamente dolorosa perdita di Kyriakos e il ferimento di Marianna. Quante parole di sconforto vogliamo ancora spendere? Quanto ancora intendiamo lamentarci del fatto che i media fanno quello per cui sono pagati, cioè mostrificare e sbattere in prima pagina un compagno caduto durante un attacco? Vogliamo veramente disquisire riguardo soprusi mediatici e polizieschi, dell’antiterrorismo, nei confronti dei compagni e delle compagne? Di cosa ci meravigliamo esattamente? Gli anarchici vengono indagati, arrestati, processati, torturati e condannati a morte da più di un secolo e non è certo una novità. Non c’è nessuna ingiustizia, le idee – e le pratiche – rivoluzionarie muovono guerra allo Stato e lo Stato fa il suo mestiere, cerca di preservarsi, reprimendo e tentando di schiacciare i suoi nemici. Punto. C’è ben poco da gridare allo scandalo. Questo non vuol dire che non si debbano smascherare le subdole trame degli apparati mediatici e repressivi. Ci mancherebbe altro. La critica affilata, oltre ad essere oggettivamente necessaria, è un esercizio costante di sfida nei confronti di chi la realtà intende travisarla e plasmarla a proprio beneficio. E oggi questa critica è importante come lo era ieri. Forse ancor di più, visto che le voci di compagni sono sempre di meno. Bisogna però stare attenti a non cadere – e scadere – nell’autocommiserazione, un impulso sempre ahimè dietro l’angolo.
Kyriakos non è morto da vittima. Kyriakos è un compagno caduto in azione e questo fa la differenza. Il modo in cui se n’è andato ci pone tutti inevitabilmente di fronte alla questione della pratica anarchica. È un fatto inderogabile. Ed è anche una questione di rispetto. Non è stato ammazzato da uno sbirro durante un arresto. Non è stato assassinato da un fascista mentre attaccava manifesti e non è morto in un incidente stradale. Kyriakos è morto nello scontro violento contro questo mondo. Ci vuole coraggio. Il minimo che possiamo fare noi, con coraggio, è rivendicare a testa alta le pratiche che lui, come altri anarchici prima di lui, hanno concretizzato per colpire il potere. Riconoscerle e rivendicarle in quanto parte integrante dell’anarchismo. Chiamandole col loro nome, per quello che sono. Senza troppi giri di parole.
Ma ahimè nel mezzo del vortice di questo delirio postmoderno nel quale malauguratamente ci troviamo di questi tempi, la bussola sembra ormai persa. Rivolta collettiva, rivolta individuale, anarchismo rivoluzionario, propaganda del fatto, odio di classe, guerra sociale, niente di tutto ciò sembra oggi meritare più spazio. L’anarchismo pare aver lasciato il posto all’attivismo, al micropraticismo: quello rossonero, quello verdenero, quello fucisanero; a specialismi di ogni sorta; a sottoculture varie. Dimensioni che hanno fatto dell’iperemotività la propria ragion d’essere e accomunate da una grave confusione teorica. Chiaramente tutto ciò è molto facile e molto comodo. Prospettive concilianti senza dubbio, che mettono d’accordo un po’ tutti e rendono l’anarchismo più digeribile, stemperandolo, rendendolo un qualcosa di astratto. A volte però ci pensano i fatti a riportare al centro le ragioni della lotta anarchica e dunque è inevitabile tornare a guardare in faccia la dura materialità. Ché l’anarchismo è guerra sociale e di classe. È vendetta, sangue, piombo e dinamite. Un intervento nelle lotte sociali che va di pari passo con l’azione individuale armata, senza che i due aspetti si escludano a vicenda. Oggi come ieri c’è chi crede che l’ipotesi armata, lungi dall’essere un vecchio arnese impolverato e relegato ai libri di storia, sia sempre applicabile e praticabile.
Al di là delle fesserie controrivoluzionarie del post-anarchismo di importazione a stelle e strisce, siamo in molti inoltre ad essere cresciuti in un periodo storico votato alla pace sociale, al compromesso, alla disillusione nei confronti di qualsiasi progettualità rivoluzionaria. Dove già solamente nominare termini come “padroni”, “sfruttati”, “rivoluzione” fa sorridere tanti utili idioti che sorreggono il mondo capitalista e nemmeno se ne rendono conto. Pedine di un sistema che li ha masticati negli anni settanta e ottanta e sputati dritti nei novanta per farci la predica su i tempi che non sono più quelli di una volta, che la rivoluzione è un termine arcaico consegnato ad un passato inglorioso, sconfitto, che la lotta armata è stata un’allucinazione di un pugno di illusi esaltati, appannaggio di realtà politiche non più esistenti. È così che ci tocca crescere, leggendo sui libri la storia scritta come sempre dai vincitori. La storia che racconta periodi di piombo, anni bui, notti della Repubblica. Del bene che alla fine ha trionfato sul male. Della retorica sulla sconfitta dei terroristi e del ritorno alla pace sociale nel migliore dei mondi possibile. Dell’unica via da percorrere in nome della democrazia. Una serie di vacuità che non potevano non influenzare una larga parte delle cosiddette nuove generazioni. Ma un conto è la storiografia, un conto è la realtà. Ed a guardarla bene questa realtà è facile notare come invece c’è sempre stato qualcosa che si muoveva e che si muove al riparo da tutte queste paternali. Colpi sferrati, cospirazioni, cellule di fuoco, federazioni informali, lotte rivoluzionarie, nuove sovversioni. Non esistono anni gloriosi, gli slanci rivoluzionari sono un fuoco sempre acceso e le fiammate che sprigiona non dipendono tanto dal contesto storico più o meno favorevole, ma dalla forza e determinazione di individui che abbandonano dubbi ed esitazioni, «paure ed autogiustificazioni», si assumono una buona dose di rischio e colpiscono il potere.

L’ultima volta che mi incontrai con Kyriakos, in una stretta via di Exarcheia, ricordo che parlammo a lungo. Del mondo in guerra e delle sfide alle quali ci troviamo di fronte. Della qualità della lotta. Di quanto determinate convinzioni nel tempo fossero mutate, evolute, fatte più mature. Dei limiti intrinsechi di certe lotte parziali. Di un preciso modo di intendere la Libertà nella sua sostanza più integrale. Di un livello dello scontro troppo basso. Di quanto fosse necessario alzare questo livello. In questo Kyriakos ha perso la vita. Ritengo che il massimo impegno di solidarietà nei confronti di chi non c’è più e nei confronti delle compagne e compagni indagati e rinchiusi per questo caso, è dare continuità alle idee e alle lotte che queste sorelle e questi fratelli stavano portando avanti. In una combinazione teorico-pratica di cui c’è sempre più necessità. Sempre più urgenza.
Viviamo in tecnocrazie fondate sul sopruso, sul massacro, sull’esproprio e sulla guerra. I miserabili che comandano questo sistema mortifero stanno al sicuro, con la pancia piena e il conto in banca gonfio. Gestiscono dall’alto delle loro piccole o grandi catene di comando tanti schiavi che contribuiscono consciamente o inconsciamente alla loro ricchezza e al loro successo. E non temono più la rabbia degli oppressi, le lame degli sfruttati o gli ordigni degli anarchici perché dopo anni ed anni di violenza di classe il potere ha imparato sulla propria pelle come tenere buoni gli animi. Ha imparato che non bisogna tirare troppo la corda e togliere il pane dalle tavole perché altrimenti la gente prende in mano i forconi. Ha capito che è utile fornire e fabbricare qualcosa da perdere, anche se artificioso. Le porcate sono sempre le stesse, non sono mai cambiate, ma sono edulcorate dall’illusione della democrazia e della partecipazione. Facciate rassicuranti di governi moderni e progressisti, sbirri e giudici democratici, padroni filantropi. Ma la merda è sempre merda, hanno solo imparato a nasconderla sotto i tappeti giusti, nelle galere dove nessuno vede e a nessuno interessa, nelle celle delle questure, nei lager per immigrati e nei paesi dei quali a nessuno frega niente, nei campi di pomodori e nei cimiteri in fondo al mare, nel letale sfruttamento quotidiano e sistematico sui posti di lavoro. Realtà celate da un’addomesticazione di massa portata avanti a suon di briciole e bisogni indotti elargiti e spacciati come benessere. Un meccanismo velenoso che è riuscito nella sua opera di pacificazione sociale, aiutato e sorretto dai riformisti di ogni epoca e colore, senza il cui contributo questo traguardo non sarebbe stato possibile, è bene rammentarlo.
Ora, sull’orlo di una terza guerra mondiale, con gli Stati e le democrazie che necessariamente devono far cadere la maschera che troppo a lungo li ha celati, tutto sembra diventare più esplicito e allora è proprio ora, proprio qui, che dobbiamo ribadire con le parole e con i fatti la giustezza delle nostre Idee e delle nostre pratiche, le nostre ragioni, le nostre negazioni. Di giorno in piazza e di notte dove non ci aspettano. Ognuno secondo le proprie possibilità, il proprio istinto, la propria indole.
Man mano che il mondo precipita, non sarà più possibile restare immobili. Noi sappiamo chi è dalla parte giusta. Kyriakos con quella bomba era dalla parte giusta.

Contro la docilità.
Contro i concetti militaristi di “gloria” e “onore”. Né martiri, né eroi.
Morte allo Stato. Guerra alla guerra. Viva l’anarchia.

Forza Marianna! Ti abbraccio. Non sarai mai sola.
Forza Dimitra, forza Dimitris, sempre a testa alta.
Forza Nikos, di nuovo tanta solidarietà a te.

Ciao caro Kyriakos,
la miccia è ancora accesa.

Un anarchico,
15 dicembre 2024

[Ricevuto via mail e pubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2024/12/17/la-miccia-e-ancora-accesa/]