“Che fatica, conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta al contributo “Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo (con disimpegno a vista sul nichilismo)”
Che fatica, conciliare l’inconciliabile…
Recentemente è stato fatto circolare, sia su Il rovescio che su La Nemesi, un contributo intitolato Sulle solite vecchie amate questioni. A proposito di comunismo e individualismo (https://ilrovescio.info/2025/10/22/sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo/), contenente alcune risposte a quattro scritti critici – di cui due riconducibili a Juan Sorroche, prigioniero anarchico, uno ad un autore anonimo e l’altro ancora al gruppo anarchico Panopticon – aventi per oggetto gli articoli La fase nichilista e L‘anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, entrambi pubblicati sul settimo numero del giornale anarchico Vetriolo.
I quattro scritti menzionati non sono affatto sovrapponibili, né per quanto riguarda il loro contenuto, che nell’approccio metodologico, piaccia o meno il termine, adottato nello sviluppo delle critiche.
Poco importa che dietro alle righe che avete sotto gli occhi vi sia l’autore di uno di questi quattro testi; anonimato sia, tanto per quello (Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista“), quanto per questo. Tuttavia, non posso fare a meno di rilevare che emmeffe, l’autore della risposta, o meglio dell’insieme di risposte, evidentemente meno avvezzo alla scelta dell’anonimato, ha replicato in maniera piuttosto autoreferenziale e, mi verrebbe da dire egocentrata, al mio contributo, ignorando di fatto una serie di punti critici ben più rilevanti, ai fini di un dibattito tra rivoluzionari, di mal interpretate accuse di scarsa originalità nella teorizzazione della cosiddetta fase nichilista. Piuttosto che tornarci sopra – l’autoreferenzialità è terribilmente noiosa – trovo maggiormente interessante collegarmi solo ad alcuni punti sviluppati nel suo scritto, al di là del loro specifico riferimento alle critiche mosse nei quattro diversi scritti, tentando di alimentare il dibattito. A questo scopo, può essere utile avvalersi di alcune citazioni testuali. Faccio solo presente che nell’opuscolo Bussole impazzite https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/09/25/bussole-impazzite-note-critiche-su-teoria-radicale-classe coscienza-individuo-comunita-e-possibilita-di-rottura-rivoluzionaria/) – sono state trattate alcune questioni – su cui non mi posso dilungare in questa sede – attorno a cui si è sviluppato anche il dibattito in corso: l’individuo, la comunità, il contenuto del comunismo e le recenti rivolte e sommosse verificatesi in tutto il mondo.
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«L’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti, sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie)»
Il nostro autore la fa un po’ troppo facile. Il frontismo antifascista è certamente una delle massime espressioni dell’assunzione ottimistica e della partecipazione attiva a lotte sociali interclassiste. In questo senso, la formula, abusata e raramente praticata nelle sue conseguenze pratiche, «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», conserva integralmente la sua validità, e non solo perché, al termine della Seconda guerra mondiale, il fascismo ha perso militarmente e ha vinto politicamente, in quanto modo di essere del capitalismo (e quindi dello Stato). Il fatto è che, volendo essere onesti, la tattica del frontismo antifascista non può essere ricondotta esclusivamente ai partiti marxisti fedeli alle direttive della Terza Internazionale, dominata dai bolscevichi. Tra l’altro, in seno ad essa non tutti i partiti aderirono alla tattica del fronte unico; il caso del Partito comunista d’Italia, da poco fondato e diretto dalla cosiddetta Sinistra comunista italiana, e dal più volte evocato – poco coerentemente essendo il nostro autore anarchico – Amadeo Bordiga, è emblematico, ma non esaurisce le posizioni scettiche e di netto rifiuto del frontismo, più diffuse di quanto si immagini in campo marxista, non solo al principio degli anni 20′.
Il frontismo è un fenomeno che ha coinvolto storicamente anche gli anarchici, molti ma non tutti, tanto in Italia, ad inizio anni Venti con gli Arditi del popolo, tra il 1943 e il 1945 con la Resistenza partigiana, che, ancora più evidentemente, in Spagna, e precisamente nella misura in cui il fascismo veniva visto come il nemico numero uno da combattere. La lotta di classe e lo scontro ultimativo rivoluzionario venivano così rimandati a democrazia restaurata. È lo stesso autore de La fase nichilista a farcelo presente più avanti: in Spagna alcuni anarchici accettarono addirittura dei ministeri, per non parlare poi dei tentativi di sabotaggio degli scioperi spontanei che si produssero più volte già durante le prime fasi della guerra civile, del maggio 1937 a Barcellona, del discorso pronunciato da Durruti a Radio Barcelona (e riportato sul bollettino Solidaridad Obrera, il 5 novembre 1936), in cui il leader anarchico – si sprecano gli esempi di veri e propri capi libertari nella storia dell’anarchismo – esortava le organizzazioni operaie a non dimenticare che il dovere principale a cui erano chiamate era combattere il fascismo, motivo per cui dovevano lasciare perdere «i rancori e la politica, e pensare alla guerra». Tornando al nostro autore, non è chiaro perché l’esempio del tradimento della CNT debba costituire un’eccezione, tale da permettere di ricondurre il tatticismo frontista ai marxisti, deresponsabilizzando storicamente gli anarchici.
La questione conserva una certa attualità. Infatti, ancora oggi l’antifascismo militante classico, con tutto il suo squallido corollario da politicanti – codismo, carrozzoni, logiche racketistiche, compromessi col ”meno peggio”, ecc – viene volentieri abbracciato da molti/e attivisti/e; a monte c’è lo stesso principio: prima si fanno i conti col pericolo fascista sempre dietro l’angolo – evitando di fare un bilancio di cosa sia stato il fascismo oltre allo squadrismo, alle camicie nere, all’olio di ricino, alla brutalità repressiva, quindi ignorando il suo più profondo contenuto, circoscritto ad una fase capitalistica e di scontro di classe che non esiste più nella forma in cui si pose un secolo fa – poi, ammesso e concesso che ne venga riconosciuta l’esistenza, c’è lo scontro di classe.
Ogni fronte antifascista è fronte democratico, ogni fronte interclassista è fronte contro l’autonomia proletaria.
«Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima, ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin, Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti, dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla resistenza».
Da tempo ci troviamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma bisogna fare delle precisazioni utili non a trastullarsi il cervello con menate accademiche, come molti attivisti ostinatamente continuano a sostenere, ma a comprendere dove sta andando il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto, il processo di globalizzazione, risposta alla crisi di accumulazione emersa sul finire della Golden Age, sin dal principio aveva fornito solo risposte parziali e niente affatto risolutive per il precario stato di salute del capitalismo. La globalizzazione inizialmente si configura come una vera e propria piattaforma di rilancio dell’accumulazione mondiale sostenuta dall’imperialismo finanziario del dollaro e dalla dilatazione della sua sfera d’influenza – resa possibile dalla fine degli accordi di Bretton Woods – all’intero globo. Contemporaneamente, si assiste al rapido sviluppo cinese, frutto del rapprochement sino-americano, accompagnato da un sostanziale calo della produttività industriale negli USA e dalla progressiva formazione di enormi bolle di capitale fittizio pronte a scoppiare, ecc; contraddizioni che sono andate inasprendosi, nonostante gli innumerevoli tentativi di arginarle, e che sono parzialmente deflagrate nella grande crisi finanziaria dei titoli subprime del 2008.
Dire che la crisi in corso è resa possibile delle nuove tecnologie – una formuletta meccanicista che un buon anarchico dovrebbe sbattere in faccia ai suoi storici avversari, i ”socialisti scientifici” – è un’affermazione fumosa, se non si prende in causa il fenomeno della caduta tendenziale del saggio di profitto, quindi – essendo il capitale costretto a rivoluzionare continuamente i propri mezzi di produzione per fronteggiare la concorrenza in termini di produttività e costi – l’insieme di contraddizioni connesse al fenomeno della sostituzione macchinica della forza lavoro viva, per cui, riducendo all’osso: più capitale fisso = meno forza lavoro viva impiegata = meno estrazione di plusvalore = popolazione eccedente crescente = quantità crescenti di merci invendute, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dei mercati, del sistema monetario, del credito, della finanza, ecc. Se poi ce ne sbattiamo altamente dei più recenti, ormai ricorrenti e sistematici, tentativi di decoupling selettivo tra USA e Cina, del debito mondiale e, in particolar modo, di quello yankee; del fatto che gli stessi Stati Uniti fanno sempre più fatica, economicamente e militarmente, a sostenere la propria posizione di sbirro mondiale, della messa in discussione dell’egemonia del dollaro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali, e tante altre cosette non da poco, allora la confusione è più che garantita. La crisi della globalizzazione non può quindi essere ridotta all’affermazione di nuove tecnologie nella sfera della produzione e della logistica.
Sulla spaccatura politica interna ai grandi amministratori del capitale poi ci sarebbe molto altro da aggiungere, per esempio che il reshoring e i già citati tentativi di disaccoppiamento delle due più grandi economie – anche considerando la sola Cina, che non è poco, senza di essa gli USA non starebbero in piedi – stanno dando pochi risultati. Persino Biden e ”l’élite politica liberale” hanno dovuto raccogliere il lascito trumpiano rappresentato dall’inasprimento della guerra commerciale contro la Cina: un processo avviato formalmente nel 2018 con le tariffe su acciaio e alluminio, arrivate a colpire le importazioni cinesi per 370 miliardi di dollari, nonché su merci e componenti ad elevato contenuto tecnologico. Che vogliamo dire poi della reciproca dipendenza tecnologica tra le due potenze, che vede la Cina detenere quasi il monopolio delle terre rare, essenziali allo sviluppo delle moderne tecnologie e dei sistemi d’arma, con particolare riferimento all’IA – su cui si sta già giocando la partita decisiva, in vista dello scontro aperto tra i due colossi che va preparandosi, e che per ora è solo rimandato – e gli Stati Uniti la supremazia (ancora per quanto?) in materia di produzione di microprocessori e software più all’avanguardia? Insomma, il nodo delle tecnologie e delle materie prime rende evidente l’impossibilità di un disaccoppiamento totale delle due più grandi economie mondiali. Alle restrizioni statunitensi nell’esportazione di tecnologie avanzate la Cina risponde con restrizioni sull’esportazione di terre rare. Per il momento non è possibile parlare di un’inversione della globalizzazione, anche e soprattutto perché i tre processi fondamentali che la caratterizzano: catene globali del valore, logistica e apertura dei mercati mondiali persistono… scricchiolano, ma persistono.
«La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale. Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico»
Per un panoramica, tutt’altro che esauriente, sulle determinazioni della lotta di classe internazionale contemporanea rimando al già citato Bussole impazzite. Mi limito a sottolineare alcune contraddizioni individuate nel testo. Inizialmente l’autore ci invita a diffidare delle lotte interclassiste, per poi sostenere che la resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico coincide con la lotta di classe. Quest’ultima presuppone un certo grado di autonomia del polo proletario nello scontro col capitale e, stando a quanto si è verificato globalmente negli ultimi cinque anni durante le manifestazioni di opposizione allo sviluppo scientifico, come per esempio le lotte contro il green-pass e l’obbligo vaccinale anti-Covid in Europa, sarebbe del tutto falso, al di là delle valutazioni che possono essere fatte in merito a quelle stesse lotte, affermare che in esse la componente proletaria sia stata dominante e, men che meno, dotata di una propria autonomia sia in termini di obiettivi, se non in sparuti casi, che di organizzazione, ecc. Non a caso si trattava di classici esempi di lotte interclassiste.
È vero, la lotta di classe non è mai pura, ma non la si può cercare nemmeno dove non è effettivamente presente. Rintracciare manifestazioni delle lotta di classe in tutto il mondo è, data l’autoevidenza di fenomeni difficilmente analizzabili nel dettaglio in questa sede, chiaramente possibile e necessario. Tuttavia, ciò che risulta essenziale evidenziare è che esse, oggi più che mai, sono direttamente legate alla crisi della riproduzione del proletariato e delle classi medie impoverite, quindi alla crisi della riproduzione del rapporto capitale-lavoro-popolazione eccedente. Il green-pass, per alcuni settori di proletariato europeo, come di classe media, ha costituito motivo di mobilitazione in primo luogo perché molto frequentemente il rifiuto della vaccinazione comportava immediate difficoltà nel mantenere un’occupazione relativamente stabile e portare a casa un salario che consentisse di sopravvivere in tempi di pandemia. Principi, etica, passione per la libertà, ecc, declinati in maniera più o meno democratoide, borghese o bottegaia – non si può negare che l’influsso ideologico delle mezze classi sia stato evidente – e molto più raramente libertaria, sono motivazioni secondarie. Un altro modo per dire che sotto il capitalismo, se sei un senza riserve, con le dichiarazioni di principio non ci fai uno stracazzo di niente, non ci paghi l’affitto, la spesa, le bollette, le rette per i tuoi figli, se puoi permetterti di averne, ecc.
Bordiga, per cui emmeffe sembra avere un’incomprensibile passione, era solito ripetere che dai bei principi, dall’etica, dalle pure volontà individuali e dalla loro somma non può derivare quel fenomeno di ionizzazione sociale delle molecole proletarie, fattore necessario perché possa prodursi un violento scontro di classe generalizzato. Per il comunista partenopeo, la rivoluzione sociale non è un fatto tanto diverso dall’evoluzione della specie umana: prima la pancia, poi la mano, infine il cervello; una visione che poco si adatta al volontarismo anarchico, e che deve molto al metodo scientifico, pur essendo assai critica della scienza e delle teorie della conoscenza proprie della civiltà borghese. Per Bordiga l’ortodosso, non esisteva una mezza misura: il marxismo, concezione monistica del mondo e della realtà materiale, o si accettava in toto o non si era altro che dei ciarlatani. Inoltre, e qui concludo la parentesi sul primo segretario del PCd’I – difensore dell’anonimato e acerrimo nemico di quella che definiva la peste individualista, nettamente contrapposta al comunismo, che a sua volta non ha niente a che vedere col comunismo anarchico, non movimento reale ma ideale da realizzare, di cui parla il nostro autore – egli nutriva un sincero disprezzo per certo anarchismo, e per qualsiasi forma di ”proudhonismo”e idealismo. Avversario della bolscevizzazione e critico della cosiddetta degenerazione della Terza Internazionale, era fermamente convinto che il processo di autorganizzazione del proletariato in soviet dovesse essere comunque subordinato all’azione del partito di classe. Alla difesa dei meccanismi democratici opponeva la dittatura proletaria e il centralismo organico. Emmeffe, hai voglia a parlare di anarco-bordighismo!
Tornando a noi, le lotte portate avanti tra il 2020 e il 2021 in una serie di fabbriche e magazzini in Italia per la chiusura degli stabilimenti, la tutela della propria salute, per imporre un’immediata diminuzione dei ritmi di lavoro e dei rischi di contagio, più pause per uscire all’aperto e respirare senza mascherina, ecc (cfr. AA.VV, Loco19, Colibrì), non si sono certo verificate a causa di un diffuso, consapevole o meno, sentimento di ribellione verso la scienza e la civiltà industriale. Se fosse stato così, la messa in questione della società industriale, della medicina, dei dispositivi di tracciamento, difficilmente sarebbe tornata in maniera repentina sui propri passi ad emergenza sanitaria rientrata. Fa specie allora che il nostro autore inviti i lettori a non cadere nel tranello che porta chi si fa eccessivamente condizionare dalle proprie convinzioni a cercare nelle manifestazioni di opposizione sociale e nelle lotte ciò che desidera ardentemente scorgervi.
Negli USA l’assassinio di Floyd da parte degli sbirri – con gli effetti della pandemia che premevano duramente sul proletariato, soprattutto su quello razzializzato, sotto attacco da decenni, uniti alla disastrosa situazione sanitaria e sociale – ha fatto da detonatore ad un accumulo di fattori pronti a deflagrare nello scontro diretto con lo Stato. I risultati sono noti: prolungati disordini, sommosse, blocchi, attacchi a commissariati, stazione e mezzi di polizia, espropri, occupazioni di aree urbane sottratte al controllo delle autorità, saccheggi e rivolte tendenti a superare i confini etnici per acquisire contorni chiaramente classisti. Infatti, inizialmente il movimento aveva incontrato la solidarietà e la partecipazione attiva di consistenti fette di proletariato bianco – deluso e arrabbiato per le disattese aspettative di aumento dell’occupazione e reindustrializzazione delle aree depresse del Paese promosse da Trump nel 2016 – e latinos; solo in un secondo momento, con il recupero operato dal variegato monnezzaio post-moderno, ha acquisito tratti identitari, democratoidi ed infine elettorali. La rabbia della popolazione ghettizzata, delle lavoratrici e dei lavoratori essenziali, spesso occupati in occupazioni e mansioni richiedenti livelli minimi di specializzazione, ha fatto da catalizzatore e ha trascinato altre fette di proletariato, anche quelle con qualche ”garanzia” in più, fino alle classi medie proletarizzate e in via di rapida proletarizzazione. Sarebbe impossibile poi elencare e riassumere le caratteristiche delle rivolte, definite dai media, piuttosto superficialmente (ma che vuoi mai), della GenZ, avvenute in tutto il mondo nel 2025, figuriamoci durante gli ultimi cinque anni. La scienza e la tecnologia però non sembrano essere stati affatto al centro di tutti questi episodi. Toccherà forse tirare fuori l’inconscio freudiano?
«La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta, «ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato (peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di «delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista, viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe».
Partendo da una brevissima sintesi dello stato attuale della globalizzazione, si è visto come essa abbia subito un rallentamento, di cui le politiche protezioniste, il ristagno degli accordi commerciali multilaterali, la restrizione degli investimenti diretti esteri a livello produttivo rappresentano solo alcune manifestazioni. Il contesto storico presente non è fondamentalmente caratterizzato dallo scontro politico tra sovranismo e liberismo, come sostiene il nostro autore. Tale contrapposizione, al massimo, è riflesso delle contraddizioni, brevemente presentate sopra e realmente centrali, di un modo di produzione capitalistico che, in alcune aree del pianeta più di altre, soprattutto in Occidente, versa in condizioni particolarmente difficili; tali da far pensare, nel medio-lungo termine, ad una disarticolazione parziale dell’attuale assetto geoeconomico e ad un’inevitabile riarticolazione del capitalismo mondiale. Il termine disarticolazione richiama senza dubbio l’emersione di fenomeni come le guerre commerciali e guerreggiate, simmetriche o meno, ma anche sconquassi sociali generalizzati, ovvero una ripresa della lotta di classe a varie latitudini passibile di sfuggire al controllo degli stati e delle classi dominanti. Bisogna però tenere presente che la globalizzazione non è una politica che si possa scegliere di abbracciare o abbandonare volontaristicamente – quelle che l’autore chiama élite sovraniste e liberali, i singoli amministratori del capitale, non dispongono delle forze per incidere politicamente su processi globali altamente complessi, sedimentati e ramificati – ma uno stadio del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione di merci. Questo stadio, si è cercato di mostrarlo in poche righe, se certamente ha generato contraddizioni gigantesche tendenti a metterlo in questione nella sua totalità, non ha esaurito tutte le sue carte. Lo scontro politico tra élite di cui parla l’autore non va quindi assolutizzato.
Le delocalizzazioni, contrariamente a quanto viene affermato in questo passaggio del testo, non sono affatto venute meno; anzi la tendenza degli ultimi decenni è riassumibile in un ulteriore processo di concentrazione e differenziazione di gerarchie e funzioni all’interno delle catene globali del valore, con paesi basati sull’esportazione di materie prime, paesi manifatturieri con larga disponibilità di forza lavoro a basso costo, paesi a manifattura avanzata, ma estremamente settorializzata e, infine, paesi caratterizzati da attività economica volta allo sviluppo di tecnologie e servizi all’avanguardia e ad alto contenuto tecnologico, perciò al vertice della gerarchia, ma comunque dipendenti dalle altre economie su più piani. Dunque, Emmeffe dà la globalizzazione per spacciata troppo presto.
Per quanto riguarda la sua parentesi sugli anni Settanta, beh, non so di chi stia parlando, sono nato a PCI definitivamente morto da qualche anno. Ma l’anagrafe è noiosa tanto quanto l’autoreferenzialità, meglio concludere.
«Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui essa si esprime a livello di massa in Occidente»
L’autore vorrebbe far risorgere un cadavere, quello del nichilismo russo della seconda metà dell’Ottocento, putrescente tanto quanto lo zarismo. Non è possibile sorvolare sul parallelismo con la situazione di un impero alla cui morte convivevano ancora almeno tre modi di produzione: feudale, asiatico e capitalistico, oltre a vestige di antichissimo comunismo, rilevabili nella comunità di villaggio o Obscina. La lotta di classe è una dinamica, invarianza storica all’interno delle società di classe, non una ricetta, una formula o un modello organizzativo trasponibile a piacimento, al di fuori del tempo e dello spazio, sulla base dei gusti personali, delle aspettative e dei principi etici.
Le forme della lotta classe, le modalità di autorganizzazione degli sfruttati mutano perché è il modo di produzione a trasformarsi nel tempo e la classe dei senza riserve a scomporsi e ricomporsi in funzione di quelle. In questo senso, ciò che più conta è la spontaneità del proletariato: l’unica forza capace di dare corpo agli organismi dell’autonomia proletaria. La teoria rivoluzionaria ha il dovere di sintonizzarsi con questa spontaneità, laddove e quando emerga, senza illudersi di sostituirsi ad essa, pensando di bruciare tappe che non possono essere bruciate da individui singoli o gruppi, imboccando presunte scorciatoie che portano solo all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e all’autocelebrazione delle proprie gesta militanti, che si fa beffa della vigliaccheria e dell’attendismo degli schiavi sonnolenti. Che tale sintonizzazione sia finalizzata a prendere il controllo del movimento rivoluzionario onde dirigerlo, piuttosto che assecondarne l’autonoma spinta verso la trasformazione dei rapporti sociali che incatenano l’umanità intera è altra faccenda da affrontare necessariamente, quella dell’organizzazione rivoluzionaria.
PDF: Che fatica, conciliare l’inconciliabile…
[Ricevuto via e-mail e pubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/11/14/che-fatica-conciliare-linconciliabile-una-risposta-al-contributo-sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo-con-disimpegno-a-vista-sul-nichilismo/]
